lunes, agosto 15, 2005

Sin título

Poema publicado en varios lugares, epecialmente en Alkimia, El Salvador, 2000.




I.
¿Qué hago sin gato aquí,
cierto y ecuánime,
sin causa que juzgar?
¿Qué hago sin cara propia,
sin pies ni tambaleante? ¿Quién me busca
y no halla mi teléfono en su mesita de centro? Soy apenas
las señas particulares de alguien que me conoce,
tarjeta de identidad que se descalza un pie
y luego el otro
y dormirá hasta que sea demasiado temprano.

(Mi carne no sabe a carne. La saliva
se coagula y, oh, de nuevo es media tarde
y no ha llegado la lluvia.)

¿A qué hora habré nacido, que no recuerdo la luz?
¿A qué hora me habré muerto, que no me duelen las manos?

II.
Aún hay bancas en los parques.
Aún hay parques
y las estatuas gruñen en silencio su soledad patria.

Aún hay flores
y aún no tengo nombre. Aún
arranco flores para entender que alguien muere
cuando el amor nos mira fijamente.

¿Y de qué se habla en el parque?
¿Y a quién se espera en el parque? ¿Quién llega?
¿A quién se pide perdón? ¿A quién se paga la entrada?
¿Quién cobra?

Hoy no hubo un reloj que me llamara
y llegué tarde a la ceremonia de estar solo.

III.
Mañana será hoy, y así las cosas.
Mañana no es mañana.

(¿Qué hago sin gato aquí,
donde dormir es muerte?)

11.XI.99

viernes, agosto 12, 2005

Cimitero d’automobili

Traducción de Attilio Aleotti. Publicado en la revista italiana Crocevia No. 1/2.




Il Matto sapeva che sarebbe morto. Il dottore gli disse:
–O ti taglio la mano, o crepi.
Lui si alzò e uscì dall’ambulatorio. Non storse neanche la bocca, come soleva fare a volte. Semplicemente si alzò e se n’andò. Aveva lasciato passare troppo tempo e l’unico modo di curarlo, era tagliare. Non gli piacque l’idea.
–Fattela tagliare, Matto– gli dissi sulla porta–. E’ la sinistra, è una stronzata.
–E’ la mia mano– disse.
Erano quatto giorni che il Matto non andava a lavorare e il commissario mi chiamò.
–Portami quello stronzo o vi butto fuori entrambi. C’è un operativo e vi voglio qui alle sette.
Certe volte il Matto spariva diversi giorni, poi tornava, come se niente fosse. La cosa più probabile è che restasse in casa a lavare i panni o andasse a puttane ad Acapulco, ma gli piaceva fare il misterioso. Non era strano che sparisse quando mancavano tre giorni a Natale.
Era nel suo appartamento. Dentro la tele urlava a tutto volume. Voci di cartoni animati. Era pallido e sembrava che non si fosse lavato da un anno, lui, sempre così pulito. Grondava sudore da tutte le parti.
–Puzza di topo morto– dissi.
–Sul serio?
Quando puzza in questo modo è perché c’è qualcosa in decomposizione. Di solito sono persone. Assassini passionali, vecchiette che cadono nella vasca da bagno, suicidi, un po’ di tutto. Spiai nel bagno.
–Smetti di cercare– disse
Mi mostrò la mano sinistra avvolta in un fazzoletto con macchie nere. L’odore veniva da lì. Era gonfia, con le dita grosse come salsicce, e dello stesso colore.
–Mi hanno fottuto– disse
Si sedette davanti al televisore e bevve un sorso da una bottiglia di brandy.
–Vuoi un goccio ? – mi disse.
–No.
–Hai visto gli Antenati?
–Ti porto dal medico.
–Hai visto i merdosi Antenati?
–Sì.
–Assomigli a quel cazzone di Barney – disse– e cominciò a ridere.
Accesi una sigaretta.
–Smetti di fumare. Quella roba uccide– mi disse.
–C’è l’operativo. Ti porto dal medico che ti veda e ti metta in mutua.
Fred l’Antenato era vestito da Babbo Natale e usciva da un camino.
–Hai visto gli Antenati?– Mi tornò a chiedere.
Non riuscivo a staccare gli occhi dalla mano bendata. Lo stomaco mi andò sottosopra.
–Che t’è successo?
–Mi hanno fottuto – disse
–Chi?
–Cosa importa? –disse in un soffio –. Mi hanno fottuto. Succede.
–Una pallottola?
–No – disse.
Non riuscii a smuoverlo da lì. Era strano che non volesse dirmelo. Gli piaceva parlare di quanto gli accadeva. Era bravo a raccontare storie.
Si guardò la mano con compatimento. Un rivolo di sangue nera scivolò da sotto il fazzoletto.
–Ti sta marcendo– dissi–. Ti porto dal dottore.
–Ormai non serve piangere– iniziò a svolgersi il fazzoletto–.Non mi fa neanche male.
Me la mostrò. Dovetti correre a vomitare. Non perché non avessi visto cose peggiori, ma perché era la mano del Matto. Scoppiò a ridere e quando tornai stava finendo l’ultimo sorso della bottiglia.
–Vediamo se arrivo a Natale– mi disse.
–E chi te lo ha fatto?
–Che vada in culo.
–Ti porto dal dottore.
–Mi prenderanno in giro– disse, ma venne con me.
Lo portai con la sua macchina, non volevo che la mia s’impestasse. Quest’odore non lo dimenticherò, pensai.
–La vita è come una puttana di lusso– disse il Matto ad un semaforo.
–Come?– Domandai, per dargli corda.
–Non lo so, ma è così.
Non parlò più.
–Cancrena– Disse il medico legale –. Bisogna amputare. O ti taglio la mano, o crepi.
–Fin dove?– chiese il Matto.
–Fino qui– e indicò sotto il gomito.
Allora il matto si alzò e se n’andò via correndo. Quando giunsi al parcheggio non c’era più la sua macchina.
–Perché c’è puzza di morto? – mi chiese il Turco, uno della squadra omicidi.
–Io non puzzo di niente – risposi.
Presi una delle auto sequestrate e me ne andai a Cuemanco. Lì c’era un posto che piaceva al Matto, con alberi e prati pieni di fiori. Il Matto era strano. Certe volte passavamo di lì e mi diceva: facciamo un salto.
Vi avevano trovato un cimitero d’automobili anni prima. Tutte rubate e saccheggiate, ordinate in file eguali. Erano circa settanta. Al Matto piaceva camminare in mezzo alle auto e sedersi dentro a qualcuna a guardare i prati.
–Voglio che mi seppelliscano qui– diceva, e mi raccontava storie di suo babbo.
Lo trovai lì, infilato in una LTD senza sedili. Teneva la pistola con la destra e guardava attraverso il parabrezza con gli occhi ben aperti. Mi parve puzzasse ancora di più. Accesi un’altra sigaretta e tacqui.
–Smettila di fumare– mi disse.
Gettai la sigaretta.
–Stai male– gli dissi.
–Fa molto freddo. Niente va in cancrena quando fa freddo. Poi nei climi secchi non si va in cancrena.
–E i vermi?
–Che si fottano.
Andai a pisciare contro un albero.
–Mio babbo aveva una cicatrice nelle costole, di questa misura. Era brutta, come una bruciatura.
–Che gli era successo?
–Non lo so – stava sudando ed aveva la voce impastata –. Quando andavamo in spiaggia passavo tutto il tempo a guardargli la cicatrice. Non capivo come mia mamma lo potesse abbracciare con quella cicatrice. Mi vergognavo che lo vedessero in costume da bagno.
Provai a toccargli la fronte, ma si ritrasse e mi puntò la pistola.
–Stai male– gli dissi.
–Sai perché mi chiamano il Matto? – mi domandò.
–Perché sei matto–. Gli risposi
–Scoppiò a ridere ed abbassò la pistola.
–Una volta disarmai quatto banditi con solo le manine. Avevano delle pistolone grandi così. Con le sole manine, e li rincoglionii a furia di botte. Ero di servizio in banca. Mi dettero quattromila pesos di ricompensa. Con quelli comprai il televisore e delle camice.
S’appoggiò con la testa sul volante e si mise a piangere.
–Ti fa male?
–No.
–Sono le cinque – gli dissi. Alle sette devo essere in commissariato per l’operativo e tu vai dal medico.
Fu allora che udimmo il motore. Sembrava una macchina sportiva smarmittata. Il Matto alzò la testa.
–Vadano affanculo – disse.
Usci dall’auto impugnando saldamente la pistola, vigile, come quando dovevamo svolgere qualche lavoro delicato. Andò correndo fino dov’erano gli alberi.
Lo seguii.
–E’ un maggiolino –mi disse da dietro un pino – Romba come un Ferrari.
–Andiamocene– gli dissi.
–Son due donne –disse.
Dall’auto scesero due ragazze e un cucciolo bianco.
–Samoyedo – disse–. Ho sempre sognato averne uno.
Le ragazze camminavano nel prato, con il cane che correva e gli abbaiava attorno. Loro non gli davano retta. Parlavano gesticolando e ridendo. Avevano dei blue jeans e dei maglioni colorati. Erano vestite quasi eguali.
Il Matto le guardava con la bocca e gli occhi ben aperti, sembrava contento.
–A mia sorella mancherò – disse– Speriamo.
–Su, andiamo –gli dissi–. E che ti taglino questa stronzata.
–E’ la mia mano –disse.
–Si sta putrefacendo – gli gridai– Morirai.
Mi guardò negli occhi.
–Non urlare – e tornò a guardare in direzione delle ragazze–. Ti hanno sentito.
Il cucciolo cominciò ad abbaiare nella nostra direzione. Le ragazze si alzarono lentamente, impaurite.
–Hai sputtanato tutto – disse ed uscì.
Le ragazze al vederlo con la pistola, corsero all’auto. Anche il cucciolo corse, senza smetter d’abbaiare.
Corsi dietro al Matto. Le ragazze stavano salendo sul maggiolino. Lui si girò e mi puntò la pistola.
–Non t’avvicinare o t’ammazzo– mi gridò.
S’avvicinò all’auto e prese di mira quella che guidava. Toccai la pistola, era al suo posto.
–Ma chi cazzo sei?– sentii che gridava la ragazza –. Ma chi cazzo credi di essere?
Il cucciolo abbaiava come un ossesso. Il Matto lo ammazza, pensai.
La ragazza gli doveva aver detto qualcosa, perché abbassò un poco la pistola. Mi avvicinai lentamente.
–Non me ne frega niente – Sono già morto. Sono morto da quattro giorni. Non me ne frega niente. Tu non sei nessuno per dirmi ciò che è buono e ciò che è cattivo.
Il motore della macchina s’accese. Il Matto alzò nuovamente la pistola. Colsi l’occasione per circondarlo e avvicinarmi da dietro. Ce l’avevo a cinque metri. Che le ammazzi, pensai, poi mi pentii.
Il cucciolo smise d’abbaiare.
–Vedi che non è difficile? – disse il Matto. Stava urlando, ma sembrava che sussurrasse–. Hai visto? Dì alla tua amica di uscire, poi esci tu.
Era a tre metri. Sentii una voce stridula, apparteneva alla ragazza che era alla guida. Non capii quello che disse.
–Guarda – disse il Matto e mise la mano davanti al finestrino. Ancora una volta aveva abbassato la pistola –. Tu non hai mai visto niente di simile. Sei troppo carina. Tu profumi, ma io ho un profumo migliore – scoppiò a ridere –. Io ho un profumo migliore. Io profumo che è un meraviglia.
Sentii un colpo. Aveva rotto un finestrino con la pistola. Le ragazze gridarono ed il cucciolo riprese ad abbaiare.
–Matto– gli dissi. Chinò il capo senza girarsi.
–Non me ne frega niente – disse.
–Infilò la pistola nella cintura. Mi misi dietro di lui. Le ragazze erano sbiancate.
Quella seduta al posto del passeggero assomigliava a qualcuna che non mi tornò in mente.
–Fate tacere il cane – le urali.
La ragazza alla guida se lo mise sulle gambe e cominciò ad a accarezzarlo con le mani contratte. Il cucciolo tacque.
–Vi faccio un regalo di Natale. disse il Matto, e si tolse il fazzoletto dalla mano –. Guardate, è la mia mano.
Erano troppo terrorizzate per provare schifo.
–Matto.
–Ti ho sentito – mi disse–. Non vedi che sto discorrendo con le signorine?
–Andatevene – gli dissi.
–Col cazzo – disse il Matto–. Che guardino, che si fottano – guardo quella al posto di guida–. Cosa vuoi? – le domandò– Che cazzo vuoi?
Fu a un pelo dal toccarla con la mano marcia.
–Guarisca – gridò isterica–. Si curi, la prego.
Il Matto mise mano alla pistola. Estrassi la mia.
–Mollala o ti riempio di piombo–.gli dissi.
Si girò a guardarmi. Stava piangendo. Aveva la stessa faccia di mio figlio quando gli rubarono il gatto. Mio figlio, lo avevo abbracciato. Col Matto non potevo, anche se avrei voluto.
–Perché ?–mi chiese.
Continuai a tenerlo sotto tiro.
–Spostati Matto. Faccio sul serio.
–Forse sarebbe meglio così – disse e si allontanò tra gli alberi. Trascinava i piedi e sembrava che la testa gli pesasse.
Il cucciolo s’era addormentato sulle gambe di quella alla guida.
–Andatevene – dissi–. E non vi passi per la testa di raccontare qualcosa perché vi vengo a cercare.
Il pavimento era pieno di pezzi di vetro. L’auto lasciò le impronte delle ruote nel prato.Il motore rombava troppo per essere un maggiolino.
–Hò gia provato a spararmi, ora, due volte – disse il Matto. Era in piedi al centro del cimitero delle automobili–. Puzza.
–C’e l’operativo. Andiamo o mi licenziano.
–Pensi che arriverò a Natale? – mi chiese.
–No.
Andò verso la sua macchina.
–Ormai..– disse.
Non sentivo più la puzza. Avevo smesso di sentirla da un pezzo. Gli aprii la porta.
–Ricordi se ho spento la tele? – mi chiese entrando.
–L’ho spenta io.
–Meno male. Consuma molta corrente.
Accesi la macchina. Il Matto non sapeva dove mettere la mano, aveva perso il fazzoletto.
–Che freddo di merda –disse.

Cementerio de carros

Publicado en varias antologías de cuentos.




El Loco sabía que se iba a morir. El médico se lo dijo:
–O te corto la mano o te mueres.
Él se paró y se salió del consultorio. Ni siquiera torció la boca, como a veces hacía. Sólo se levantó y se fue. Ya había dejado pasar mucho tiempo y el único modo de curarlo era cortar. No le gustó la idea.
–Loco, que te la quiten –le dije en la puerta–. Es la izquierda, no hay bronca.
–Es mi mano –dijo.
Hacía cuatro días que el Loco no iba al trabajo y el comandante me llamó.
–Tráeme a ese cabrón o los corro a los dos. Hay operativo y los quiero aquí a las siete.
A veces el Loco se desaparecía varios días y luego llegaba como si nada. Lo más probable era que se quedara en su casa lavando ropa o se fuera de putas a Acapulco, pero le gustaba hacerse el misterioso. No era raro que desapareciera cuando faltaban tres días para navidad.
Estaba en su departamento. Adentro sonaba la tele a todo volumen. Voces de caricaturas. Estaba pálido y parecía que no se había bañado en un año, él siempre tan limpio. Sudaba por todas partes.
–Huele a rata muerta –le dije.
–¿De veras?
Cuando huele así es porque hay algo descompuesto. Casi siempre es gente. Asesinatos pasionales, viejitas que se caen en la bañera, suicidas, de todo. Me asomé al baño.
–Ni busques –dijo.
Me enseñó la mano izquierda, envuelta en un pañuelo con manchas negras. El olor venía de allí. Se veía hinchada, con los dedos gruesos como chorizos y del mismo color que los chorizos.
–Me chingaron –dijo.
Se sentó frente al televisor y le dio un trago a una botella de brandy.
–¿Quieres un trago? –me dijo.
–No.
–¿Has visto Los Picapiedra? –me preguntó.
–Te voy a llevar con el médico.
–¿Has visto a los chingados Picapiedra?
–Sí.
–Te pareces al pinche Pablo –dijo, y se empezó a carcajear.
Encendí un cigarro.
–Deja de fumar. Esas cosas matan –me dijo.
–Hay operativo. Te voy a llevar al médico para que te vea y te dé una justificación.
Pedro Picapiedra estaba vestido de Santaclós y salía de una chimenea.
–¿Has visto Los Picapiedra? –me volvió a preguntar.
Yo no podía dejar de verle la mano envuelta. El estómago se me revolvió.
–¿Qué te pasó?
–Me chingaron –dijo.
–¿Quién?
–¿Qué importa? –dio un resoplido–. Me chingaron. Así pasa.
–¿Un balazo?
–No –dijo.
No pude sacarlo de allí. Era raro que no quisiera decirme. Le gustaba hablar de todo lo que le pasaba. Era bueno para contar historias.
Se miró la mano como con lástima. Un hilo de sangre negra se le resbaló por debajo del pañuelo.
–Se te está pudriendo –le dije–. Te llevo al médico.
–Ya ni llorar es bueno –se empezó a desamarrar el pañuelo–. Ya ni me duele.
Me la enseñó. Tuve que ir a vomitar. No porque no hubiera visto cosas peores, sino porque era la mano del Loco. Él se atacó de la risa y cuando volví estaba echándose el último trago de la botella.
–A ver si llego a navidad –me dijo.
–¿Y el que te lo hizo?
–Que se vaya a la mierda.
–Te llevo al médico.
–Se van a burlar –dijo, pero me acompañó.
Lo llevé en su coche; no quería que el mío se apestara. Este olor no se me va a olvidar, pensé.
–La vida es como las putas caras –dijo el Loco en un semáforo.
–¿Cómo? –le pregunté por seguirle la corriente.
–No sé, pero así es.
No volvió a hablar.
–Gangrena –le dijo el legista–. Hay que amputar. O te corto la mano o te mueres.
–¿Hasta dónde? –preguntó el Loco.
–Hasta aquí –y señaló abajo del codo.
Entonces el Loco se paró y se fue corriendo. Cuando llegué al estacionamiento ya no estaba su coche.
–¿Por qué huele a muerto? –me preguntó el Turco, uno de Homicidios.
–Yo no huelo nada –le dije.
Agarré uno de los carros confiscados y me fui a Cuemanco. Allí había un lugar donde al Loco le gustaba estar, con árboles y unos prados llenos de flores. El Loco era raro. A veces pasábamos por allí y me decía: vamos un rato.
Habían encontrado un cementerio de carros hacía años. Todos robados y desmantelados, puestos en filas bien parejitas. Eran como setenta. Al Loco le gustaba caminar en medio de los carros y sentarse en alguno a mirar los prados.
–Aquí quiero que me entierren –decía, y me contaba cosas de su papá.
Allí lo encontré, metido en un LTD sin asientos. Tenía la pistola en la derecha y miraba por el parabrisas con los ojos bien abiertos.
Me pareció que olía peor. Encendí otro cigarro y me quedé callado.
–Ya no fumes –me dijo.
Tiré el cigarro.
–Estás mal –le dije.
–Hace mucho frío. A nadie le da gangrena cuando hace frío. Además en clima seco no da gangrena.
–¿Y los gusanos?
–Que se jodan.
Fui a orinar a un árbol.
–Mi papá tenía una cicatriz en las costillas, así como de este tamaño. Estaba fea, como si le hubieran quemado.
–¿Qué le pasó?
–No sé –estaba sudando y tenía la voz pastosa–. Cuando íbamos a la playa me pasaba viéndole la cicatriz. No entendía cómo mi mamá lo podía abrazar con esa cicatriz. Me daba vergüenza que la gente lo viera en traje de baño.
Traté de tocarle la frente, pero se hizo para atrás y me apuntó con la pistola.
–Estás mal –le dije.
–¿Sabes por qué me dicen el Loco? –me preguntó.
–Porque estás loco –le contesté.
Soltó una carcajada y bajó la pistola.
–Una vez desarmé a cuatro asaltabancos con las purititas manos. Traían pistolones de este tamaño. Con las purititas manos y los dejé locos de tanto madrazo. Estaba en la Bancaria. Me dieron cuatro mil pesos de recompensa. Con eso compré la tele y unas camisas.
Apoyó la cabeza en el volante y se puso a llorar.
–¿Te duele?
–No.
–Son las cinco –le dije–. Tengo que estar a las siete para el operativo y tú te vas con el médico.
Entonces oímos el motor. Parecía de un carro deportivo con el escape abierto. El Loco levantó la cabeza.
–Van y chingan a su madre –dijo.
Se salió del carro con la pistola bien agarrada, alerta, como cuando teníamos que hacer algún trabajo delicado. Se fue corriendo hasta donde estaban los árboles.
Lo seguí.
–Es un vochito –me dijo desde detrás de un pino–. Suena como Ferrari.
–Vámonos –le dije.
–Son dos viejas –dijo.
Del coche bajaron dos muchachas y un cachorro blanco.
–Samoyedo –dijo–. Siempre he querido tener uno de ésos.
Las muchachas caminaron por el prado, con el perro corriendo y ladrando alrededor. Ellas no le hacían caso. Hablaban moviendo las manos y se reían. Usaban pantalones de mezclilla y unos suéteres de colores. Vestían casi igual.
El Loco las miraba con la boca y los ojos bien abiertos, como contento.
–Mi hermana me va a extrañar –dijo–. Ojalá.
–Vamos –le dije–. Que te corten esa chingadera.
–Es mi mano –dijo.
–Estás agusanado –le grité–. Te vas a morir.
Me miró a los ojos.
–No me grites –y volvió a ver a donde estaban las muchachas–. Te oyeron.
El cachorro se había puesto a ladrar hacia donde estábamos. Las muchachas se levantaron despacio, alarmadas.
–Ya la fregaste –dijo, y salió.
Las muchachas lo vieron con la pistola y corrieron al carro. El cachorro también corrió, sin dejar de ladrar.
Salí detrás del Loco. Las muchachas estaban subiendo al vocho. Él se volteó y me apuntó.
–No te acerques o te mato –me gritó.
Fue al coche y le apuntó a la que manejaba. Toqué mi pistola; estaba en su lugar.
–¿Quién chingados eres? –oí que le gritaba a la muchacha–. ¿Quién chingados crees que eres?
El cachorro ladraba como poseído. El Loco los va a matar, pensé.
La muchacha debió decirle algo porque bajó un poco la pistola. Me acerqué despacio.
–Me vale madre –gritó el Loco–. Yo estoy muerto. Me morí hace cuatro días. Me vale madre. Tú no eres quién para decirme lo que es bueno y lo que es malo.
El motor del coche se encendió. El Loco levantó otra vez la pistola. Aproveché para rodearlo y acercármele por detrás. Lo tenía a cinco metros. Que las mate, pensé, pero me arrepentí.
El cachorro dejó de ladrar.
–¿Ves que no es difícil? –dijo el Loco; estaba hablando a gritos, pero se oía como si susurrara–. ¿Viste? Dile a tu amiga que salga y después sales tú.
Lo tenía a tres metros. Oí una voz aguda; era de la muchacha que manejaba. No entendí lo que dijo.
–Mira –dijo el Loco y movió la mano frente a la ventanilla; otra vez había bajado la pistola–. Tú nunca has visto algo así. Eres demasiado bonita. Hueles bien, pero yo huelo mejor –se carcajeó–. Yo huelo mejor. Yo huelo pura madre.
Oí un golpe: había roto una ventanilla con la pistola. Las muchachas gritaron y el cachorro volvió a ladrar.
–Loco –le dije. Él bajó la cabeza sin voltearse.
–Me vale madre –dijo.
Se puso la pistola en el cinturón. Me paré detrás de él. Las muchachas estaban pálidas. La del asiento del pasajero se parecía a alguien que no recordé.
–Callen al perro –les grité.
La muchacha que manejaba lo agarró y se lo puso sobre las piernas. Empezó a acariciarlo, con las manos crispadas. El cachorro se calló.
–Les voy a dar un regalo de navidad –dijo el Loco, y se quitó el pañuelo de la mano–. Miren. Es mi mano.
Ellas estaban demasiado asustadas para asquearse.
–Loco.
–Ya te oí –me dijo–. ¿No ves que estoy platicando con las señoritas?
–Váyanse –les dije.
–Ni madre –dijo el Loco–. Que vean. Que se chinguen –miró a la que manejaba–. ¿Qué quieres? –le preguntó–. ¿Qué chingados quieres?
Estuvo a punto de tocarla con la mano podrida.
–Que esté bien –gritó ella histérica–. Que se cure, por favor.
El Loco puso la mano en la pistola. Saqué la mía.
–Suelta eso o te plomeo –le dije.
Volteó a verme. Estaba llorando. Tenía la misma cara de mi hijo cuando se robaron el gato. A mi hijo lo abracé. Al Loco no podía, aunque quisiera.
–¿Por qué? –me preguntó.
Seguí apuntándole.
–Apártate, Loco. Va en serio.
–Tal vez hasta fuera mejor –dijo, y se fue caminando hacia los árboles. Arrastraba los pies y parecía que la cabeza le pesaba.
El cachorro estaba dormido en las piernas de la que manejaba.
–Váyanse –les dije–. Y no se les ocurra decir nada porque las busco.
El piso estaba lleno de pedazos de vidrio. El carro dejó las ruedas marcadas en el pasto. El motor sonaba demasiado fuerte para ser un vocho.
–Ya traté de pegarme un tiro, ahorita, dos veces –dijo el Loco; estaba parado en medio del cementerio de coches–. Se siente feo.
–Hay operativo. Vamos o me corren.
–¿Crees que llegue a navidad? –me preguntó.
–No.
Fue hacia su coche.
–Ya qué –dijo.
Ya no sentía el mal olor. Hacía rato que había dejado de sentirlo. Le abrí la puerta.
–¿Te acuerdas si apagué la tele? –me preguntó mientras se subía.
–Yo la apagué.
–Menos mal. Gasta mucha corriente.
Encendí el coche. El Loco no sabía dónde poner la mano; había perdido el pañuelo.
–Pinche frío –dijo.

domingo, agosto 07, 2005

Algo sobre la muerte de Rafael Menjívar

Publicado en Forja (San José, Costa Rica) en septiembre de 2000 y por Alkimia (San Salvador) en diciembre de 2000.




La muerte tiene una ventaja que es al mismo tiempo lo contrario: fija a las personas en el tiempo, en los diferentes tiempos en que esa persona estuvo en nosotros, con nosotros, en nuestra memoria, en nuestros deseos de que las cosas fueran de cierto modo, o que no fueran en absoluto.
La ventaja de esa fijación es que por fin puede pensarse en la persona que ha muerto como un todo, como una estructura terminada, de forma definitiva, si es que “estructura” sirve como algo más que como sinónimo (académico, pedante) de “vida”. (También implica dolor: es el precio: ¿quién quiere pagarlo?)
Todo se explica de pronto –hay que tener voluntad para ello–, y lo que vimos treinta años antes tiene sentido en las últimas palabras del que ha muerto o en los silencios terribles de su agonía, en el recuerdo de una carcajada en algún momento indefinido del pasado. (Hay imágenes que no pueden ubicarse: son destellos que llegan y se van antes de que uno alcance a aprehenderlas; y es que talvez uno no comprendió su importancia en su momento, de allí la fragilidad del recuerdo.)
Todo, también, tiene sentido cuando se hace la lista de quienes llamaron para enterarse del moribundo, de quienes no llamaron jamás, de quienes fueron sus amigos sólo a la última hora, de quienes lloraron sin saber por qué, pero con el corazón.
¿Quién cargó su ataúd, quién quiso cargarlo, quién fue espectador, quién fue víctima? La estructura se cierra con ese último hecho. Y ése es el último hecho porque a la hora de las paletadas de tierra llora casi cualquiera, o casi cualquiera debe contener el llanto, porque es sobre la imagen que tiene uno de sí mismo que están cayendo esas paletadas: un día ese ataúd será el mío –lo es desde ya, qué le vamos a hacer–, un día habrá ciertas personas presentes o ausentes y vestidas de negro que también lloren en nuestro nombre, por nuestro nombre: están en nuestra muerte desde ya. (¿Quiénes son? Y ¿por qué precisamente ellos?)
Todo es claro entonces. Uno puede decir: “Esta persona fue esto”, o “Esta persona fue esto otro”, aunque uno lleve el mismo nombre que el muerto. Y el hecho de llevarlo hace que, de algún modo, uno tenga una visión de sí mismo –parcial, de acuerdo–, una pista acerca de quién es, de qué está siendo, de quién fue y –¡vamos!– de quién será cuando llegue el momento en que suenen las paletadas sobre el ataúd propio y otro a su vez, con el mismo nombre a cuestas, se dé cuenta de que un ciclo se ha cerrado dentro de su vida, y que “la vida” significa que algo suyo, alguien que es él mismo, ha muerto y sin embargo apenas está muriendo, y así sucesivamente.

* * *

La desventaja de que una persona se quede fijada en el tiempo es la propensión a la solemnidad y al sensiblerismo.
La solemnidad evita que uno vea al muerto de frente. En realidad lo que el solemne ve es su propia imagen en un espejo distorsionado, del que la miopía le impide ver el detalle. No habla del que murió, sino de sí mismo, de lo que quiere de sí mismo, para sí mismo, y sueña con estatuas y con los discursos –solemnes, claro– que se dirán cuando su cadáver descienda a la oscuridad. Un solemne no aceptará que se le incinere; quizá en su caso sí funcione eso de la incorruptibilidad que la naturaleza reserva a algunos elegidos: se han visto casos y se verán más, no quepa duda.
La sensiblería estupidiza, si no es ella misma un síntoma de estupidez. (No tiene que ver con el IQ, sino con la inteligencia del alma.) El sensiblero llora, recuerda cualidades que el muerto no tuvo, y quiere verlo –¡ah, los espejos!– como se vería en su propio funeral si tuviera la oportunidad. (Al menos el sensiblero sabe que no la tendrá; sólo se rinde duelo antes de que sea demasiado tarde. Cuando esté a punto de morir tendrá miedo como cualquiera, humano o no, solemnes incluidos.)
Rafael Menjívar (escribo mi nombre y siento que escribo también el de otros; eso hago) se fijó en el tiempo el 7 de agosto de 2000, día de su muerte, para quienes lo quisieron, y para los solemnes (que ya reconstruirán su historia a conveniencia) y sensibleros (que ya lloraron un fragmento de su propia muerte y obtuvieron un poco de paz de espíritu). Para mí, Rafael Menjívar (escribo su nombre y el de otros y siento que estoy escribiendo el mío), el aire sigue siendo más ralo que antes y he muerto casi cada vez que he respirado desde el 7 de agosto, porque lo que enterramos (¿qué nombres esconde ese plural?) fue un pedazo de lo que soy, de lo que seguiré siendo y lo que ya nunca seré.
Ya pasará la sensación de ahogo. Siempre pasa. Eso es lo que dicen, y lo creo; hace menos de un mes y medio que un pedazo de mi nombre está muerto y hace falta acostumbrarse a que uno no obstante continúa desconcertantemente vivo.

* * *

El dolor es egoísta. Siempre. Sin excepciones.
El doliente no puede pensar más que en sí mismo. Por eso es tonto esperar que los suicidas tengan compasión de sus familias (“Su hija lo encontró, pobre niña, por qué no pensó en ella”), o que los depresivos terminales hagan algo más que ver la pared, o que los bebés con cólico dejen de llorar, llorar, llorar.
Puede no ser egoísta cierta aceptación de sufrir dolor a causa, digamos, de una causa noble: el héroe que salva a una o tres o cuatro personas del incendio, la madre que protege al hijo con su cuerpo en la erupción del Etna. O trabajar excesivamente para que las cosas mejoren –la situación económica propia, la miseria de tanta gente–, sin importar las consecuencias ni el cansancio que, de verdad, en algún momento dejará de sentirse.
Pero llegado el dolor sólo hay egoísmo y retraimiento. Por eso detesto a los mártires profesionales: necesitan de los peores dolores o del deseo de las peores torturas para que su vida tenga sentido, y cada vez que dicen “Estoy dispuesto a...” sienten el dolor anticipadamente y se retuercen de placer. El pueblo, o la religión, o la patria –siempre una generalidad: ¿cómo puede individualizar un egoísta?– son el motivo declarado de su dolor futuro, que sin embargo disfrutan de antemano. Para el mártir el dolor no es un riesgo: es un objetivo.
Los que verdaderamente “están dispuestos a...” no se andan con justificaciones: simplemente hacen lo que tienen que hacer, y saben que todo tiene un precio; si pueden, se abstendrán de pagarlo. No son gente enferma: son gente que vive a secas, al igual que la gente que “no está dispuesta a...”, esa mayoría respetable.
Doy demasiadas vueltas para decir que en las últimas semanas he fumado de más, y que eso hace daño. No he podido dormir antes de las cinco de la mañana. Me la paso frente a la computadora –ah, el maravilloso enlace a 64k– y busco discos gratis en el web, escribo por trozos las correcciones de un libro que debí terminar hace un año –añado, quito, dudo, borro, reescribo, invento–, abro el programa de música y transporto a sonido de guitarra las variaciones Goldberg que conseguí en formato MIDI (hay que ajustar velocidades, tesituras, etcétera), tomo el cuaderno y hago anotaciones a mano, abro el libro sobre etnicidad y literatura en Guatemala que acaba de enviarme Mario Roberto Morales, leo y subrayo, ceno entretanto, almuerzo, busco en el web cosas que antes no me importaban y que cuando termino de bajar olvidé para qué servían. Llega trabajo por correo electrónico. Bajo los archivos, los reviso, traduzco, envío. Repito el ciclo, me acuesto en la hamaca y el único cambio es que leo un capítulo del Manual de caligrafía y pintura de Saramago; lo demás sigue, compulsivamente.
Y de repente es de nuevo hora de despertar y otra vez la de acostarse, hora de comer, las horas del día tan iguales, el calor siempre el mismo, la tormenta eléctrica de hoy idéntica a la de cuándo. Es tanto lo que hago en estos días que no guardo registro sino en segundo plano, y es difícil que todo tenga sentido por sí mismo. Esa compulsión, lo sé, es un modo de asumir el dolor, o de impedirlo, y ya me harta. Estoy siendo egoísta: estoy encerrado en la muerte de alguien que llevaba mi nombre, aunque siempre había dicho que el proceso natural, que la última etapa de la vida y todas esas coas. Y no, no pienso en un dios; sería faltarme al respeto y faltarle al respeto a los otros Rafael Menjívar con los que comparto sangre.
(Son las 5:13 de la tarde. ¿Cómo llegamos a las 5:13? Hace apenas un rato eran las once de la mañana del día de ayer. Sí, me digo como en los días anteriores, hoy me dormiré temprano. Estoy seguro. Y me da miedo, y a la vez me es indiferente, que el reloj marque de repente las 5:30 de la madrugada y que los pájaros canten después de un largo sueño, que envidio aunque no deseo. Y allí está el peligro: en el miedo, en la indiferencia, en la envidia de algo que no se desea. Quisiera decir que el verdadero peligro está en el reloj, pero no es cierto: él sólo hace su trabajo. No quiero pagar el precio del dolor. Debo fumar menos. Ah, cómo me extraño, cómo quisiera estar de nuevo conmigo.)

* * *

¿Qué se fijó de Rafael Menjívar en el tiempo el 7 de agosto de 2000, diez días antes del cumpleaños de Rafael Menjívar su hijo, un mes y dos días antes del de Rafael Menjívar, su nieto?
Con él las cosas nunca fueron fáciles, y allí estuvo siempre su encanto: se puede saber qué fue, pero no a partir de ciertos actos, sino de todos; si esa afirmación debe expresar algo es admiración por una vida interesante. Jamás entró a trabajar a las ocho de la mañana –no por mucho tiempo, quiero decir, no definitivamente–, ni regresó a las seis de la tarde ni encendió la televisión ni abrió una cerveza ni leyó el diario mecánicamente más que como un cambio de rutina, y su rutina –nuestra rutina– era la falta de certezas: policías a veces alrededor de la casa, libros nuevos, gente interesante, a veces esconderse durante unos días por cosas que otros hacían, siempre el riesgo de la cárcel o el exilio o la muerte. Algo aprendimos: la vida puede terminarse hoy, en cualquier momento; hay que hacer las cosas que uno debe hacer antes de que “eso” llegue, qué diablos. El problema –lo veo cuando he pasado de los cuarenta años, ahora que mi padre murió entre otras cosas de cansancio– es que ese exceso de energía que se gasta cobra caro. Pero es difícil vivir de otro modo cuando no se sabe cómo.
Rafael Menjívar, en fin, jamás se acostó a las nueve de la noche y se despertó con las gallinas. (El sonido más grato de mi niñez era la máquina Olimpia sonando a 120 palabras por minuto en el entresueño. Mi hijo habla de cómo extrañó ese mismo sonido cuando cambié la Olivetti por el teclado.) Tampoco tuvo un seguro de vida, una pensión, y los ahorros le sirvieron para morir, no para vivir el resto de su vida: la diferencia es inmensa.
Mi perspectiva es limitada: Rafael Menjívar era mi padre, y esas relaciones nunca son transparentes, aunque lo intentemos. Menos fáciles son aún porque Rafael Menjívar soy yo, y es mi hijo que lleva el mismo nombre, y es mi hija que se llama Eunice, y mis hermanos, y sus amigos y sus enemigos, que los tiene aún en la muerte porque los mereció: la gente recta merece tener enemigos. (Es su premio. Es su victoria. Y son enemigos de todos nosotros, de Rafael Menjívar, porque es en nosotros en quien vive el que murió hace apenas unas semanas.) La amistad, por otra parte, es una decisión íntima; nadie hereda a los amigos como hereda algunas fotos o unos cuantos libros subrayados aquí y allá con marcador amarillo.
Y desde mi perspectiva hay cosas que a nadie le interesan –son tan banales si no se las vivió...–, pensamientos tan íntimos que no se ponen en una nota que aparecerá en una revista, hechos tan complejos que necesitarían contarse en un espacio más largo, con otra intención talvez.
Es poco entonces lo que puedo decir, más allá de nació el 3 de enero de 1935, en Santa Ana, decano de economía a los 28 años, rector de la Universidad Nacional a los 35, exiliado hasta el día de su muerte, ocurrida a los 65, homenajeado post-mortem en varias ocasiones, cerca de 30 libros publicados (muy pocos en El Salvador, qué triste, él que vivió y murió pensando en su país).
Pero puedo decir que sus delirios con la morfina que le aliviaba el dolor del cáncer me mostraron quién era de verdad: era él mismo, la persona a la que conocí desde siempre y hasta ese día.
Su obsesión en los días de agonía era el trabajo. Con el tío Juan, conmigo, hacía largas reuniones en las que los temas recurrentes eran la creación de un organismo que buscara la integración política en Centroamérica y la consecución de fondos para proyectos de investigación acerca de El Salvador. (Un par de veces, en los peores momentos, vio policías nacionales que trataban de llevárselo preso o que intentaban secuestrar a Diego, el hijo de mi hermana. Pasó pronto.)
Durante un mes lo acompañé en las noches y platicamos otra vez de todo lo que platicamos desde que tengo memoria, y que la lejanía física había hecho menos frecuente. Las primeras veces fue difícil comunicarnos; la morfina lo hacía cambiar el objeto de atención a cada momento. Si hablábamos de literatura y ladraba un perro en la calle, comenzaba a hablar de perros; si un carro chirriaba las llantas, cambiaba a los accidentes automovilísticos o al cuidado de los frenos. En unos días descubrí que en realidad seguía hablando del mismo tema, que su discurso era por completo coherente; sólo cambiaba las relaciones que hay entre los elementos literarios a las relaciones entre los perros, los frenos y sus respectivos contextos.
Las pláticas comenzaban a las once de la noche, y él las esperaba como veinte años atrás, en México, esperaba a que yo llegara del trabajo a esa misma hora, para conversar hasta muy entrada la madrugada.
A veces me reconocía como su hijo; a veces yo era él y me hablaba como sólo podía hablarse a sí mismo, en voz muy baja. A veces yo era su hijo Rafael Menjívar, pero me hablaba como si yo fuera otro hijo, otro Rafael Menjívar al que acabara de conocer. A veces me decía de lo que sentía por mí como nunca lo hizo, creyendo que era otra persona a la que se lo contaba, o así supongo. Y gracias a eso sé que el dolor pasará, aunque ahora parezca excesivo: porque me dijo tantas cosas acerca de sus sentimientos, y yo de los míos, que dejamos nuestras cuentas claras. ¿Qué más se le puede pedir a un padre, sino que le diga a uno que lo quiere antes de morir, y poder decirle lo mismo?
A veces, cuando se ponía mal, le colocaba una mano en la frente y le hablaba en voz baja. Casi siempre se tranquilizaba. Casi siempre. Casi. A veces lo llevaba al jardín en la silla de ruedas. Me pedía un cigarro, que tenía prohibido desde hacía una década pero que no abandonó sino hasta que el cáncer prometía ser incurable. Y ésos son los momentos que aún me duelen, los que no puedo quitarme de encima: mientras fumaba, miraba el jardín con una tristeza profunda, con una expresión en los ojos que no se parece a nada que haya visto, y que espero no sea la mía cuando llegue mi momento.
De pronto se volvía hacia mí y podía darme cuenta de que había emergido de entre los vapores de la morfina, que estaba absolutamente consciente y que no podía hablar, que no quería hablar, que no quería que yo le hablara. Me acercaba y me sentaba a su lado y trataba de ver lo mismo que él, sin lograrlo.
Era tristeza por haber vivido tan poco tiempo y por haber vivido demasiadas cosas. Le tomaba una mano y él lo aceptaba. Le daba otro cigarro y, después de fumarlo, me pedía que lo llevara a la cama; estaba cansado, quería dormir. Y dormía de un tirón, y a la mañana siguiente la respiración le fallaba por algo más grave que el par de cigarros que le había dado y que ese cáncer que no era pulmonar, sino en los huesos: ¿dónde más podía tenerlo?
Desde hacía mucho tiempo mi padre estaba cansado. Desde 1983 no volvió a ser feliz. Y no fue gratuito que quien le cerrara los ojos, unas semanas después, fuera Tula Alvarenga, dirigente obrera, presa tantas veces en compañía de su esposo, Salvador Cayetano Carpio. La tía Tula permaneció al pie de su cama durante buena parte de siete días y de siete noches. Es amiga de la familia –es parte importante de la familia– desde mil novecientos cuarenta y tantos: ¿quién podía negarle el derecho de cerrarle los ojos a ese hombre ya sin carne que vio desde que era un niño con todo el futuro para vivirlo?
Refraseo: ¿quién mejor para cerrárselos?
Son otra vez las 5:05 de la mañana. Quiero dormir.
Mi padre ha venido a mis sueños sólo un par de veces. La primera él estaba a punto de caer a un precipicio. Estiré la mano y no la tomó: se dejó caer luego de decirme que así estaba bien. En el sueño era joven, mucho más joven de lo viejo que me estoy poniendo. La segunda vez que me visitó, hace tres o cuatro días, salió de entre una multitud, alzó la mano y me saludó de lejos, sonriendo.
Porque eso sí: murió sonriendo.

domingo, julio 31, 2005

Ripio

Del libro Terceras personas, Universidad Autónoma Metropolitana, colección Molinos de Viento No. 96, México, 1996. La traducción de este texto al francés por Thierry Davo aparece en este mismo blog bajo el título "Reliquat".



Dios: un ente harto de vida que roba los segundos perdidos y los coloca, sin delicadeza, en un buche inmenso.



Un animal sabe cuándo debe morir.



No importa que deba morir, sino la certeza de que la muerte tiene una fecha.
El deseo de ser fantasma: el horror de la esperanza. El sufrimiento en la muerte, pero al menos subsiste la conciencia.



Un Auschwitz repleto de ancianos.
Son la víctimas perfectas: se aferran con desesperación a los meses que aún les quedan, se retuercen.
La hora de la muerte: una mancha en el pantalón.



¿Cuál puede ser, realmente, el último pensamiento?
Nadie vive su último segundo.



Las ancianas cierran los ojos de los ancianos muertos. Noche de aullidos, siempre que la noche signifique tristeza.



El olor de un viejo triste, una uña enterrada, ojos llorosos que los remordimientos hacen considerar bellos.



¿Quién recuerda la voz de un anciano?



Un ángel anciano es una herejía. El infierno está lleno de viejos.



“Aún no estoy lo suficientemente loca para hablar sola. A mi edad rezar ya no sirve de nada, pero me gusta pensar que todavía no se me olvidan las palabras para llamar a Dios”.



¿Cómo no odiar la mirada de un perro a punto de recibir un golpe? Y sin embargo el placer de descargar el golpe.



Tener un gato sólo para envidiar su gracia.



“No es un paso en falso. Es la forma más fácil de llegar al fondo de las cosas”.

sábado, julio 30, 2005

Trece (Fragmento)

Publicado por el Instituto Mexiquense de la Cultura, Colección Confines, Toluca, México, 2003. En proceso de traducción para su publicación por Cénomane, de Le Mans, en traducción de Thierry Davo.



VIII
Me he pasado horas y horas frente a este cuaderno y lo disfruto. En las épocas en que quería ser escritor me tomaba muy a la tremenda lo de la escritura: cuidaba cada coma y cada frase como si la historia de la humanidad dependiera de las palabras. Quemé todo lo que había escrito (¡ah, los rituales!) y nada ocurrió. Ahora escribo por placer, no por angustia, y porque ya no tengo que responder ante nadie de mis palabras ni de mis actos.
Fijé un plazo y de pronto todo estuvo bien. Todo ha caído en su lugar y todo lo de la vida comienza a tener sentido. Veo colores, veo caras, oigo voces, siento el sabor de lo que pasa por mi boca. “Trece”, dije, y la magia de un número mágico –es decir definitivo– me dio una nueva visión de las cosas. “Ocho”, digo ahora.
Han pasado cinco días. Hojeo el cuaderno y he escrito en cinco días más de lo que escribí en años. No me importa si vale la pena gastarme así lo que me queda de vida. Sé que no, y allí encuentro buena parte del placer que siento al escribir y de esta lucidez que me emociona.
Aun así no puedo evitar el pensamiento de que, en efecto, estoy perdiendo un tiempo valioso que podría ocupar en… ¿qué? Me entra una prisa indefinible por hacer algo más que estar aquí sentado y escribir cosas que no tienen finalidad. Dentro de una semana, me consuelo, nada tendrá finalidad.
“Vivir la vida”. Así se le llama a hacer cosas desesperadas que tampoco tienen finalidad: ruido en las discotecas, drogas para ser inmortal, alcohol para no sentir ni la borrachera, velocidad en la carretera para tomar conciencia del poder que da la fragilidad ajena, que es la propia. Escribir puede ser menos emocionante que todo lo demás, pero dentro de nueve días dará igual que haya ido a todos los museos o que haya poseído a todas las mujeres: me quedan ocho días, y en la existencia del plazo encuentro la intensidad que había perdido.
Me doy cuenta, y paradójicamente me preocupa, de que no alcanzaré a corregir lo que he escrito; es un prurito que me queda de la época en que creí que tenía algún talento: uno por ciento de talento, noventa y nueve por ciento de sudor. ¿Quién lo dijo? Alguien que tenía el talento suficiente para crear frases humillantes. Dice el manual que uno debe escribir con locura, dejar que el texto repose y se asiente, retomarlo y corregirlo como si otro lo hubiera escrito, y seguir corrigiendo, y reescribir, y otra vez el cajón, y otra vez el reposo… Es un trabajo de paciencia, y tengo paciencia; lo que no me queda es tiempo. Tampoco quiero posponer lo que ya está decidido: perdería la lucidez y entraría nuevamente en el cauce de la vida, volvería a importarme el estilo, la distribución de las comas, ciertos énfasis, y no tendría nada de qué escribir.
Quizá decida morir sobre este cuaderno, sobre la última hoja que escriba. Quedarán muchas páginas en blanco: hay quinientas, y mi letra es pequeña. Mi sangre, si se lo ve de un modo perverso, sería una firma interesante. Que la última imagen que me lleve sea la de este cuaderno, de las tachaduras, de la s que se confunde con la r, de la mezcla de letra cursiva con letra de imprenta, la a que se parece tanto a la e
No, no sería una buena imagen. Si uno está consciente de su último segundo, sería triste preguntarse si el que lea estas notas entenderá la letra, si comprenderá esa palabra que le da sentido a absolutamente todo, y de la que yo mismo no tengo noción. Quizá debí comprar una computadora portátil, escribir a gusto en un procesador de textos, cuya letra será necesariamente legible, corregir al final del día lo que haya escrito, imprimir. O dejar la computadora encendida para que quien la encuentre –quien me encuentre– vea que allí está la inútil memoria de un tipo que se la pasó escribiendo porque, a lo mejor, escribir era lo más importante para él.
No deja de haber algo de Werther en el cuaderno azul y la tinta negra. La computadora está bien, pero las tachaduras tienen un cierto calor y son, en sí mismas, parte de la nostalgia por la vida. Puede ser que esa persona llamada A Quien Corresponda trate de ver si en la frase tachada hay una pista que indique claramente el porqué de lo que hice, o intente interpretar los glifos o los dibujos y notas al margen para buscar mis motivos. Y no los encontrará, porque no los hay. ¿Qué más claridad que la que dan los hechos simples y llanos? Un cadáver sobre un cuaderno basta para que cualquier razón, más allá del hecho, sea insuficiente o superflua. Pero que busquen en mi letra; talvez encuentren algo que se me pasó por alto.
Me gustaría saber para quién escribo. Le estoy dedicando mucho del tiempo que me queda. Quizá sea para alguno de mis amigos, digamos M. Quizá, si él me encuentra, tire el cuaderno a la basura con horror y ni siquiera piense en leerlo; ¿quién puede creer que todas estas hojas garabateadas son un modo de decir “no se culpe a nadie de mi muerte”? Sí, M. sería capaz de tirarlo o, peor aún, de guardarlo sin leer. Sería un modo de negar mi muerte o los motivos probables de mi muerte.
¿Qué diría mamá? Posiblemente se pondría furiosa; posiblemente se pusiera a llorar porque es lo que se espera de una madre. Pero ella sabría qué es lo que está pasando desde la primera hoja. Mamá sabe más de lo que supongo, y de lo que ella misma supone. También papá sabe, y mi hermana, aunque tratarán de no pensar en eso, es decir en esto. Que no se culpe a nadie de mi muerte, pues, pero que nadie trate de ignorarla o de fingir inocencia. O que la ignoren y que finjan, qué diablos: por algo he de morir. Porque todo lo que escribo aquí no explicará nada. No es un manifiesto, como debe serlo una nota de suicidio. Apenas son palabras de alguien en proceso de convertirse en la carne que la da sentido a una tumba.
(Pienso en una tumba y pienso en El entierro prematuro, de Poe. Quemen mi cadáver. Por favor. No quiero que mi cuerpo se pudra aunque yo no esté en él. Que no quede nada de mí. Por favor. Los cementerios son museos perversos. No quiero ser una de las piezas de exhibición. Hasta ahora sólo he llegado al umbral, a la parte bonita, adornada por grandes monumentos, lápidas con faltas de redacción. No quiero pasar de allí: detrás de esa belleza se encuentra el horror. No quiero que siete años después, si vence el contrato, el enterrador haga su faena y alguien –quizá mi hermana– sienta que algo se le desgarra cada vez que la pala se clave en la tierra, que mi cadáver haga el camino de regreso y ella vea, me vea, se vea en lo que queda de mí. No quiero que reciba un saco con huesos, algo de pelo quemado, unos jirones de la camisa de cuadros que tanto me gustaba. ¿Hay algo más impúdico que ser desenterrado? No me gusta la idea de que todos sepan lo que me ocurrió allá abajo, lo que les pasa a todos mis compañeros de muerte: la galería de los horrores. La cara que recuerden de mí no será la misma, ni mi cabello, ni mis manos que alguna vez acariciaron a la mujer de la ventana. Mi boca ya no tendrá boca, y ellos lo sabrán, y el hecho de que lo imaginen será peor que si lo vieran. Saber, aun sin ver –especialmente sin ver–, será dolor, miedo, angustia. No quiero que piensen en mí, en algún momento, como el ser corrupto que puede abandonar la tumba, no quiero ser el cadáver doliente que se niega a morir. Pienso en los ataúdes de aluminio como el símbolo de la perversidad: no permitir que los muertos escapen, quererlos allí, disponibles, cada grano de materia atrapado en un cajón hermético, caluroso, intolerable. No eres mío, pero no escaparás. Siempre que venga estarás allí, todo, sólo para mí, irrevocable, irreconocible, te extraño. ¿Cómo sería tu cara si me oyeras? ¿Responderías con la misma voz de antes? Mamá me encerraría en un ataúd de aluminio. Por favor, que me quemen.)
Pierdo el tiempo, pero no porque escriba, sino porque no estoy siguiendo las reglas de este juego sin reglas. He gastado un par de páginas del cuaderno en vano porque no quiero hablar del escenario de mi muerte, ni de los cementerios, sino de lo que ocurrió anoche, hoy en la madrugada. (Que el ciclo de sueño sea la división entre un día y otro.)

miércoles, julio 20, 2005

Los bárbaros se van en febrero

Texto escrito en abril de 2000. Publicado en El ojo de Adrián No. 2.



Los bárbaros terminaron de irse hoy. No se llevaron más que su sombra.
Cuando llegaron éramos pobres; ahora también. Nada ha cambiado, ni siquiera la sonrisa confiada del Alcalde. No hay una silla más, un florero de menos. No rompieron nada ni construyeron nada. No violaron a nuestras mujeres.
Llegaron un 29 de febrero; hoy, 29 de febrero, han terminado de irse.
Si vuelven no será antes de cuatro años; los bárbaros sólo llegan en año bisiesto. Ahora deberán vagar cuatro años antes de llegar a ninguna parte.
¿Por qué vagarán durante tanto tiempo, si pudieron quedarse?, preguntan los más jóvenes.
Para purificar su alma, contestan los sacerdotes. Para llegar más lejos, dicen los científicos. Para que valga la pena, dicen los que en otro lugar serían descubridores de ríos y exploradores de desiertos. (Aquí sólo son gente.)
No dejaron nada, ni siquiera sus huellas. Diez de entre los más fuertes y valientes cerraban la marcha y caminaban de espaldas a las legiones, emparejaban la tierra con los pies, con movimientos complejos y sincronizados, como si bailaran.
Ahora somos libres y nadie sueña.

martes, julio 19, 2005

Reliquat

De Tierces Personnes, Cénomame, Le Mans, Francia, 2005. Traducción de Thierry Davo.




Dieu : un être débordant de vie qui vole les secondes perdues et les place, brutalement, dans un énorme gosier.



Un animal sait quand il doit mourir.



L’important n’est pas qu’il doive mourir, l’important c’est d’être certain que la mort a une date. Le désir d’être un fantôme : l’horreur de l’espoir. La souffrance de la mort, mais au moins la conscience subsiste.



Un Auschwitz rempli de vieillards.
Ce sont les victimes parfaites : ils s’accrochent désespérément aux mois qui leur restent, ils se tordent.
L’heure de la mort : une tache sur le pantalon.



Quelle peut être, réellement, la dernière pensée ?
Personne ne vit sa dernière seconde.



Les vieillardes ferment les paupières des vieillards quand ils meurent. Nuit de hurlements, pour autant que la nuit soit synonyme de tristesse.



L’odeur d’un vieux triste, un ongle incarné, des yeux larmoyants que les remords rendent beaux.



Un vieil ange est une hérésie. L’enfer est plein de vieux.



"Je ne suis pas encore suffisamment folle pour parler toute seule. À mon âge, prier ne sert plus à rien, mais j’aime me dire que je n’ai pas encore oublié les mots avec lesquels on appelle Dieu."



Comment ne pas haïr le regard d’un chien sur le point d’être frappé ? Et pourtant le plaisir de frapper.



Avoir un chat rien que pour envier sa grâce.



"Ce n’est pas un faux pas. C’est la manière la plus facile d’arriver au fond des choses."

viernes, julio 15, 2005

Espejos

Texto publicado en el volumen Los mejores cuentos mexicanos 2004, en compilación de Eduardo Antonio Parra. Editorial Joaquín Mortiz.

I
—La locura es siempre una opción —dice después de un rato largo.
Espero que sus ojos muestren algo más que la tristeza habitual, pero siguen impasibles, verdes y equívocos.
—En algún momento hay que decidir —continúa—. Siempre hay que decidir. Te colocas en el marco de la puerta y te preguntas: ¿Me vuelvo loco o salgo y pretendo que nada diferente a lo de ayer estuvo a punto de pasar? O enciendes el carro, pisas el clutch, le das un par de golpes al acelerador y te dices: Pues bien, cierro los ojos y me lanzo calle abajo, a ver qué ocurre, y después de lo que ocurra me vuelvo loco. Pero agitas la cabeza, sonríes, ves por el retrovisor, sacas el clutch con prudencia, arrancas. Olvidas que estuviste a punto de ser tú mismo por última vez, y lo olvidas porque decidiste que ser tú mismo era otra cosa, no volverte loco, y volverte loco quizá le hubiera dado sentido a todas las dudas que hubieras tenido alguna vez. ¿Entiendes ahora?
Muevo la cabeza de arriba hacia abajo, de abajo hacia arriba, y así sucesivamente. Él hace lo mismo desde el otro lado del cristal, tres, cuatro, seis veces, cada vez con mayor lentitud, con menor rapidez, y al final sonríe. Sonrío también, muevo los labios y él habla:
—Pero todo tiene una trampa. Si te vuelves loco, es ya otra persona la que ocupa tu cuerpo, alguien que no tiene noción de su locura, que no es tú aunque sea esencialmente tú. Se te acaban las opciones, te moriste, así el psiquiatra navegue dentro de ti con sus químicos y sus palabras y te traiga de regreso y seas lo mismo que eres ahora.
Me río sin abrir la boca y hace lo mismo. Sus ojos siguen verdes.
—Si eliges una locura a medias, a lo sumo se te pondrá agrio el carácter, o creerás alucinar, esperarás oír voces, pero sólo oirás ecos. Por eso los neuróticos son patéticos: están en una zona intermedia entre la razón y la necesidad de no perder la razón. Son locos mediocres.
—Entonces ­—leo en sus labios mientras hablo— la locura no es una opción, sino una excepción.
Baja la mirada y miro sus zapatos.
—Claro que es una opción. Si te vuelves loco, literalmente te mueres y ni siquiera lo sabes. Un loco es un loco porque cree que está sano. Un loco que se sabe loco no está enfermo, es otra cosa: un santo, un poeta, un iluminado, un tipo cualquiera. Pero tú no quieres eso.
Sé lo que piensa y lo que responderá, y aun así pregunto:
—¿Cuál es la tercera opción?
—El miedo —dice antes de que termine la frase, y sus ojos son ahora soles que queman mis ojos verdes—. La locura te mata; la neurosis te vuelve ciego, o impotente, o mal padre, o inútil. Sólo el miedo te hace vivir y te da motivos para seguir viviendo.
—Sabes que no es cierto —me digo—. El miedo también te inutiliza o te enloquece o te vuelve impotente. No hay neurosis sin miedo.
Nos rascamos la cabeza, uno zurdo, el otro diestro. Nos mostramos los dientes fingiendo que eso es una sonrisa.
—Confundes el miedo con el dolor. Tú sabes lo que es el miedo.
Los dientes se convierten en una carcajada.
—No me duele hablar con el espejo, ni me asusta —me seco una lágrima—. Tampoco veo miedo cuando te veo.
—Entonces estás loco —dice con falsa lástima—. Pero eso ya lo sabías, aunque sea contradictorio.
No lo sabía, y no veo la contradicción, pero río de nuevo.


II
Morder un espejo, desde luego, y seguir mordiéndolo hasta que sea polvo. Cada grano de ese polvo reflejará tu paladar, tus dientes sangrantes y tu lengua, pero nadie podrá verlo si no abres la boca. (No abrirás la boca.) Mientras más pequeños los trozos, mayor la cantidad de reflejos y mayor la cantidad de laberintos de ésos que se crean al enfrentar espejos. (La verdad del laberinto es el laberinto.)
Cuando uno está en medio de del laberinto no hay miedo, sino una conveniente simulación del miedo: siempre existe la esperanza de salir. Lo de Teseo se ha magnificado más allá de toda proporción; era apenas cuestión de tiempo.
No hay nada, pues, dentro de un espejo, excepto reflejos, vidrio, azogue. Y el miedo, pero sólo cuando el espejo está en un cuarto a oscuras, o en trozos dentro de la boca y uno siente la urgente necesidad de tragar.


III
—¿Por qué no hay sonido en los espejos? —pregunto.
Alza los hombros y los baja con rapidez. Mis músculos, sin embargo, no se han movido.
Después habla y sigue hablando, pero no escucho: el espejo, por fin, guarda silencio.


IV
Inténtalo. Pon un espejo de frente a un desierto y después vete: seguirá reflejando con vida propia lo que haya frente a él, sin juzgarlo ni temerlo.
Regresa, o dile a tu nieto que regrese, y serás lo más importante que haya dentro del espejo, o tu nieto lo será, si es el caso: el desierto será sólo desierto.
Cuando te hayas hartado de ti mismo, quiébralo y muerde los pedazos. No te olvides de escupirlos; que tu nieto no lo olvide.


V
1. Un espejo permanece en un recinto vacío y absolutamente oscuro durante poco menos del término natural de la vida de quien lo creó a su imagen y semejanza.
Responder:
a) Si su creador vive, ¿por qué lo condenó a la tortura de las sombras, siendo el espejo un ser de luz?
b) Un espejo ¿refleja la oscuridad? ¿Qué refleja cuando se encuentra a solas en medio de los miedos de su creador?
c) ¿Cómo enloquece un espejo? ¿Qué refleja cuando enloquece? ¿Cómo recuperará la cordura? ¿Qué cicatrices le quedan?

2. El mismo espejo, la misma situación. La puerta se abre. Aparece su creador en el marco de la puerta.
Responder:
a) ¿Se deshace el espejo en moléculas de polvo? ¿Por qué?
b) ¿Puede negarse a reflejar a su creador? ¿Ignorarlo? ¿Mostrarle sin contemplaciones su verdadero rostro?
c) ¿Le mostrará la imagen de la última vez que lo vio para convencerlo de que en la oscuridad del tiempo no transcurre?
d) ¿A qué velocidad pasa el tiempo en la oscuridad?


VI
—En la locura no hay sueños —insiste—. Todo es verdad, y palpable. Todo es vigilia. Si estás cuerdo y sueñas, sientes que tocas tus visiones; si estás loco, las tocas, simplemente. En términos prácticos da lo mismo una cosa que la otra, estar loco o cuerdo: no hay diferencia entre tocar las visiones y sentir que las tocas.
Nos rascamos una oreja. Dejamos de respirar durante siete, diez, quince, veinticuatro segundos. Me tapo la boca con fuerza, para permanecer callado, y él continúa:
—Sólo en el miedo lo que tocas es diferente de lo que sientes que tocas. Si no sientes miedo, si tocar es tan natural como seguir respirando (en el miedo hasta la respiración está en duda), nunca sabrás si estás cuerdo.
—La razón, entonces, es el miedo —intento—. Sin miedo no hay razón. No sé.
—Nadie sabe —contesta a través del cristal—. Es decir: tú no lo sabes.
—Esa es una respuesta barata —lo desprecio.
—Los espejos no mienten —se entristece—. A ningún precio.


VII
a) ¿Por qué mienten los espejos cuando mienten?
b) ¿Cómo mienten?
c) ¿Qué buscan cuando mienten, si algo buscan? ¿Qué encuentran?
d) ¿Qué provoca en un ser humano la mentira de su espejo?
e) ¿Cuál es la mayor cantidad de personas a las que un espejo es capaz de reflejar por pulgada cuadrada? ¿A cuántas es capaz de decirles simultáneamente la verdad? ¿Secuencialmente? ¿Individualmente?
f) ¿Qué reflejará un espejo al que se ha tapado con una manta como castigo por mentir de manera persistente?


VIII
¿Y si fuéramos las imágenes de lo que ocurre del otro lado del espejo?
No tendríamos —no tenemos— noción de que nuestros actos son inútiles, porque son una repetición mecánica e insustancial de actos verdaderos, y dolerse o alegrarse por el futuro o el pasado sería —es— simulación de cosas que no entendemos: somos sólo la imitación de formas, de movimientos y modos, pero los procesamos como si tuvieran valor por sí mismos. Quizá del otro lado del espejo —del lado verdadero— la risa signifique indiferencia, y el llanto sea el método más anodino para limpiarse los ojos, nada más.
¿Qué pasa si estamos en un cuarto sin un espejo que nos refleje, es decir: del que no seamos el reflejo? No importaría —no importa—, y nada cambiaría —nada cambia—: siempre hay rincones ocultos en los espejos, puertas cerradas, puntos oscuros, formas equívocas. Eso somos en un cuarto sin espejos: sombras equívocas.
Entonces el miedo ya no tiene sentido, ni la locura, ni la razón; todo sería simulación, incluso la muerte: no sabemos qué es un cadáver del otro lado del espejo; no sabemos por qué lo entierran, por qué lo lloran, por qué lo abandonan, qué le está ocurriendo mientras se pudre.
Es inútil, pues, sumergirse en la locura, abandonar a los locos en asilos, ir los martes al psicoanalista, alucinar los miércoles por la noche: no elegimos nuestro destino ni el ajeno.
Un baile de simulacros en un cuarto sin espejos: ésa sería la clave si no fuéramos la sustancia de lo que se refleja en los espejos, si fuéramos sólo lo que se revela y se esconde en los espejos.


IX
Un ciego ante un espejo: un espejo ante un ciego.
Para un ciego el espejo no es una revelación, sino una superficie fría que le impide el paso.


X
1. Tezcatlipoca cojea: uno de sus pies es un espejo de obsidiana.
Todo lo que se refleja en ese espejo es oscuro y difuso. El reflejo es la caricatura de un reflejo, la caricatura de una simulación. Una de sus piernas se asienta directamente sobre la tierra; la otra, sobre una mentira. (Para verse el rostro en ese espejo es necesario postrarse ante el dios: un acto simple y terrible.)
En el tiempo humano, Huémac, sacerdote de Tezcatlipoca, emborracha con pulque a Ce Acatl Topiltzin, sacerdote de Quetzalcóatl, y lo orilla al incesto. El golpe maestro es ponerle ante el rostro un espejo de obsidiana. Topiltzin, avergonzado, abandona Tollán y huye de sí mismo. Llega al Golfo de México y se inmola con fuego: lo que vio en el espejo lo mató; quemar su cuerpo fue cuestión de trámite.
Sólo mediante el fuego se escapa del frío del espejo.

2. Los espejos de azogue no reflejan a los vampiros. Está escrito. (Trachtmann (Tratado de las cosas..., II: 27) asegura que los espejos son ventanas hacia Dios. Ningún ser demoniaco puede acceder a la Gloria, y por eso los vampiros son despreciados por los espejos: reflejarlos sería manchar lo sagrado, y lo sagrado no puede sufrir mácula. (Pensar que un vampiro es suficiente para provocar la menor alteración en el mundo de lo sagrado es una herejía, pero Trachtmann no parece notarlo.)
El vampiro no es un ser impuro por su carácter infrahumano o ultrahumano, sino precisamente porque es esencialmente humano: es puro. No sufre de deseos carnales, pero su lujuria es extrema. Eso es un extremo: no precisar de la carne ni de la irracionalidad de la pasión para ejercer la lujuria, porque la lujuria no está en el cuerpo, sino en los pilares mismos del alma.
A un vampiro no le interesa reflejarse en un espejo: no necesita de la confrontación constante consigo mismo ni de confirmaciones solitarias periódicas para saber que existe. Para un espejo es inútil reflejar a un vampiro: es un ser inmortal, inmune al miedo.
Pero un espejo puede reflejar el sol y matar a un vampiro con el reflejo. Lo mataría sin juzgarlo, incluso sin intención, sin sentir remordimientos, sólo porque en la naturaleza de la luz está reflejarse en los espejos, y en la de los espejos matar a los vampiros sin darles el consuelo de reflejarlos mientras se queman.
Los vampiros se reflejan sólo en los espejos que no son de azogue y estaño, y cada vez quedan menos.

3. Un espejo en el techo de una habitación de cualquier hotel de paso es testigo, a cada instante, de lo más esencial que hay en los humanos: la desnudez y la mecánica del instinto.
Si los espejos fueran puertas, ¿qué se escaparía a través de ellos?

4. Masticar el espejo de una casa de locos. Y luego escupirlo.

5. Medusa se convierte en piedra al reflejarse en un espejo. ¿En qué se convierte el espejo, si no lo es ya desde antes? ¿Qué ocurrirá con la siguiente persona que se coloque ante él para, digamos, arreglarse el cabello, y por descuido se mire a los ojos?6. Los mayas colocaban frente a frente a dos niños y les decían: “Ése eres tú.” Los niños quizá no comprendieran el significado profundo del ritual, pero al menos no estaban obligados a mirar de frente su propio rostro.
(¿Cuál es el tema recurrente de las pesadillas de un hombre que nunca ha visto su cara?)

7. Narciso ve su cara en el espejo y nota que se le llena de vellos: cree que su perfección se acaba —en realidad comienza— y decide matarse.
Un hombre cualquiera se rasura ante el espejo y se corta por accidente. Se lava la herida, la cubre con un trozo mínimo de papel higiénico y se va a la oficina. Treinta años después se pega un tiro para huir de la vejez. En la muerte encuentra la perfección sin pasar por las etapas más penosas del proceso. Por eso no puede enterrarse a los suicidas en tierra santa: saben algo que los muertos comunes y corrientes descubrieron por azar, por accidente, por edad, y el conocimiento ofende a Dios.

8. Adán y Eva, de pronto, se ven mutuamente desnudos y sienten vergüenza.
Ante un espejo se hubiesen dado cuenta de que no había de qué avergonzarse; no tenían puntos de comparación, y su grasa, sus vellos, sus manchas lunares, sus sexos, eran perfectos.
La fealdad no nació con los humanos, sino con los espejos.

XI
—No es la locura lo que temes —dice, y voy repitiendo sus palabras—: es la imagen de la locura. Ves a un loco en la calle y piensas: no quiero verme así. Sólo mucho tiempo después tienes la noción de que estar loco no es verte de cierta manera, sino procesar de cierta manera tu relación con la gente, con los lugares y las ideas.
—Eso —me emociono—: estar loco es una idea.
—Sólo si no estás loco —responde el espejo.
Hablo conmigo mismo —noto de pronto— y no sé qué me diré, qué contestaré, que cambiará en mí cada vez que escuche mis propias palabras. Y está bien, pero no deja de parecerme sospechoso.
—No estás loco —dice previsiblemente el del espejo—. No podrías hablar de la locura si estuvieras loco, excepto para negarla. Así pasa.
Si fuera sordomudo, pienso, y si fuera también ciego, la locura no sería una posibilidad, pero la cordura no valdría más que el hecho de respirar, defecar y estar triste. (¿Triste? ¿Con respecto a qué?)
—No se le puede dar la espalda a un espejo —oigo detrás de mí—. No sabes lo que va a reflejar. No sabes lo que pasa dentro de él mientras no lo ves, y la incertidumbre es peor que la certeza de verte de frente con todos tus tics y tus cicatrices y tus dientes torcidos.
Siento escalofríos, pero abro la puerta.
—Te lo advierto —dice, pero mis labios ya no se mueven—. ¿Sientes el dolor en el pecho? ¿Sientes que morirás en cualquier momento? ¿Sientes que nadie te llorará, y que sólo se puede morir si hay alguien que llore por uno? O que ría, es igual, pero son muy pocos los que ríen ante los cadáveres de los que murieron de miedo.
Me giro y lo veo a los ojos: llora. Toco mis ojos y están secos. “Así que esto es todo —me digo—. Así que la locura es sólo esto.”
Salir a la calle es ahora innecesario. Entrar en el espejo es imposible: ya estoy allí.
—Elige el miedo —me dice en voz muy baja.
Me miro los pies. Son los mismos pies de siempre. Miro las paredes. No han cambiado. No cambiarán.
—¿Hace cuánto llegué? —le pregunto.
—Sólo el miedo —responde.
Apago la luz y nos sentamos a esperar.


XII
El olor de un espejo: nada. El sabor de un espejo: vidrio.
No puede castigarse un acto de justicia con siete años de mala suerte.