lunes, agosto 15, 2005

Sin título

Poema publicado en varios lugares, epecialmente en Alkimia, El Salvador, 2000.




I.
¿Qué hago sin gato aquí,
cierto y ecuánime,
sin causa que juzgar?
¿Qué hago sin cara propia,
sin pies ni tambaleante? ¿Quién me busca
y no halla mi teléfono en su mesita de centro? Soy apenas
las señas particulares de alguien que me conoce,
tarjeta de identidad que se descalza un pie
y luego el otro
y dormirá hasta que sea demasiado temprano.

(Mi carne no sabe a carne. La saliva
se coagula y, oh, de nuevo es media tarde
y no ha llegado la lluvia.)

¿A qué hora habré nacido, que no recuerdo la luz?
¿A qué hora me habré muerto, que no me duelen las manos?

II.
Aún hay bancas en los parques.
Aún hay parques
y las estatuas gruñen en silencio su soledad patria.

Aún hay flores
y aún no tengo nombre. Aún
arranco flores para entender que alguien muere
cuando el amor nos mira fijamente.

¿Y de qué se habla en el parque?
¿Y a quién se espera en el parque? ¿Quién llega?
¿A quién se pide perdón? ¿A quién se paga la entrada?
¿Quién cobra?

Hoy no hubo un reloj que me llamara
y llegué tarde a la ceremonia de estar solo.

III.
Mañana será hoy, y así las cosas.
Mañana no es mañana.

(¿Qué hago sin gato aquí,
donde dormir es muerte?)

11.XI.99

viernes, agosto 12, 2005

Cimitero d’automobili

Traducción de Attilio Aleotti. Publicado en la revista italiana Crocevia No. 1/2.




Il Matto sapeva che sarebbe morto. Il dottore gli disse:
–O ti taglio la mano, o crepi.
Lui si alzò e uscì dall’ambulatorio. Non storse neanche la bocca, come soleva fare a volte. Semplicemente si alzò e se n’andò. Aveva lasciato passare troppo tempo e l’unico modo di curarlo, era tagliare. Non gli piacque l’idea.
–Fattela tagliare, Matto– gli dissi sulla porta–. E’ la sinistra, è una stronzata.
–E’ la mia mano– disse.
Erano quatto giorni che il Matto non andava a lavorare e il commissario mi chiamò.
–Portami quello stronzo o vi butto fuori entrambi. C’è un operativo e vi voglio qui alle sette.
Certe volte il Matto spariva diversi giorni, poi tornava, come se niente fosse. La cosa più probabile è che restasse in casa a lavare i panni o andasse a puttane ad Acapulco, ma gli piaceva fare il misterioso. Non era strano che sparisse quando mancavano tre giorni a Natale.
Era nel suo appartamento. Dentro la tele urlava a tutto volume. Voci di cartoni animati. Era pallido e sembrava che non si fosse lavato da un anno, lui, sempre così pulito. Grondava sudore da tutte le parti.
–Puzza di topo morto– dissi.
–Sul serio?
Quando puzza in questo modo è perché c’è qualcosa in decomposizione. Di solito sono persone. Assassini passionali, vecchiette che cadono nella vasca da bagno, suicidi, un po’ di tutto. Spiai nel bagno.
–Smetti di cercare– disse
Mi mostrò la mano sinistra avvolta in un fazzoletto con macchie nere. L’odore veniva da lì. Era gonfia, con le dita grosse come salsicce, e dello stesso colore.
–Mi hanno fottuto– disse
Si sedette davanti al televisore e bevve un sorso da una bottiglia di brandy.
–Vuoi un goccio ? – mi disse.
–No.
–Hai visto gli Antenati?
–Ti porto dal medico.
–Hai visto i merdosi Antenati?
–Sì.
–Assomigli a quel cazzone di Barney – disse– e cominciò a ridere.
Accesi una sigaretta.
–Smetti di fumare. Quella roba uccide– mi disse.
–C’è l’operativo. Ti porto dal medico che ti veda e ti metta in mutua.
Fred l’Antenato era vestito da Babbo Natale e usciva da un camino.
–Hai visto gli Antenati?– Mi tornò a chiedere.
Non riuscivo a staccare gli occhi dalla mano bendata. Lo stomaco mi andò sottosopra.
–Che t’è successo?
–Mi hanno fottuto – disse
–Chi?
–Cosa importa? –disse in un soffio –. Mi hanno fottuto. Succede.
–Una pallottola?
–No – disse.
Non riuscii a smuoverlo da lì. Era strano che non volesse dirmelo. Gli piaceva parlare di quanto gli accadeva. Era bravo a raccontare storie.
Si guardò la mano con compatimento. Un rivolo di sangue nera scivolò da sotto il fazzoletto.
–Ti sta marcendo– dissi–. Ti porto dal dottore.
–Ormai non serve piangere– iniziò a svolgersi il fazzoletto–.Non mi fa neanche male.
Me la mostrò. Dovetti correre a vomitare. Non perché non avessi visto cose peggiori, ma perché era la mano del Matto. Scoppiò a ridere e quando tornai stava finendo l’ultimo sorso della bottiglia.
–Vediamo se arrivo a Natale– mi disse.
–E chi te lo ha fatto?
–Che vada in culo.
–Ti porto dal dottore.
–Mi prenderanno in giro– disse, ma venne con me.
Lo portai con la sua macchina, non volevo che la mia s’impestasse. Quest’odore non lo dimenticherò, pensai.
–La vita è come una puttana di lusso– disse il Matto ad un semaforo.
–Come?– Domandai, per dargli corda.
–Non lo so, ma è così.
Non parlò più.
–Cancrena– Disse il medico legale –. Bisogna amputare. O ti taglio la mano, o crepi.
–Fin dove?– chiese il Matto.
–Fino qui– e indicò sotto il gomito.
Allora il matto si alzò e se n’andò via correndo. Quando giunsi al parcheggio non c’era più la sua macchina.
–Perché c’è puzza di morto? – mi chiese il Turco, uno della squadra omicidi.
–Io non puzzo di niente – risposi.
Presi una delle auto sequestrate e me ne andai a Cuemanco. Lì c’era un posto che piaceva al Matto, con alberi e prati pieni di fiori. Il Matto era strano. Certe volte passavamo di lì e mi diceva: facciamo un salto.
Vi avevano trovato un cimitero d’automobili anni prima. Tutte rubate e saccheggiate, ordinate in file eguali. Erano circa settanta. Al Matto piaceva camminare in mezzo alle auto e sedersi dentro a qualcuna a guardare i prati.
–Voglio che mi seppelliscano qui– diceva, e mi raccontava storie di suo babbo.
Lo trovai lì, infilato in una LTD senza sedili. Teneva la pistola con la destra e guardava attraverso il parabrezza con gli occhi ben aperti. Mi parve puzzasse ancora di più. Accesi un’altra sigaretta e tacqui.
–Smettila di fumare– mi disse.
Gettai la sigaretta.
–Stai male– gli dissi.
–Fa molto freddo. Niente va in cancrena quando fa freddo. Poi nei climi secchi non si va in cancrena.
–E i vermi?
–Che si fottano.
Andai a pisciare contro un albero.
–Mio babbo aveva una cicatrice nelle costole, di questa misura. Era brutta, come una bruciatura.
–Che gli era successo?
–Non lo so – stava sudando ed aveva la voce impastata –. Quando andavamo in spiaggia passavo tutto il tempo a guardargli la cicatrice. Non capivo come mia mamma lo potesse abbracciare con quella cicatrice. Mi vergognavo che lo vedessero in costume da bagno.
Provai a toccargli la fronte, ma si ritrasse e mi puntò la pistola.
–Stai male– gli dissi.
–Sai perché mi chiamano il Matto? – mi domandò.
–Perché sei matto–. Gli risposi
–Scoppiò a ridere ed abbassò la pistola.
–Una volta disarmai quatto banditi con solo le manine. Avevano delle pistolone grandi così. Con le sole manine, e li rincoglionii a furia di botte. Ero di servizio in banca. Mi dettero quattromila pesos di ricompensa. Con quelli comprai il televisore e delle camice.
S’appoggiò con la testa sul volante e si mise a piangere.
–Ti fa male?
–No.
–Sono le cinque – gli dissi. Alle sette devo essere in commissariato per l’operativo e tu vai dal medico.
Fu allora che udimmo il motore. Sembrava una macchina sportiva smarmittata. Il Matto alzò la testa.
–Vadano affanculo – disse.
Usci dall’auto impugnando saldamente la pistola, vigile, come quando dovevamo svolgere qualche lavoro delicato. Andò correndo fino dov’erano gli alberi.
Lo seguii.
–E’ un maggiolino –mi disse da dietro un pino – Romba come un Ferrari.
–Andiamocene– gli dissi.
–Son due donne –disse.
Dall’auto scesero due ragazze e un cucciolo bianco.
–Samoyedo – disse–. Ho sempre sognato averne uno.
Le ragazze camminavano nel prato, con il cane che correva e gli abbaiava attorno. Loro non gli davano retta. Parlavano gesticolando e ridendo. Avevano dei blue jeans e dei maglioni colorati. Erano vestite quasi eguali.
Il Matto le guardava con la bocca e gli occhi ben aperti, sembrava contento.
–A mia sorella mancherò – disse– Speriamo.
–Su, andiamo –gli dissi–. E che ti taglino questa stronzata.
–E’ la mia mano –disse.
–Si sta putrefacendo – gli gridai– Morirai.
Mi guardò negli occhi.
–Non urlare – e tornò a guardare in direzione delle ragazze–. Ti hanno sentito.
Il cucciolo cominciò ad abbaiare nella nostra direzione. Le ragazze si alzarono lentamente, impaurite.
–Hai sputtanato tutto – disse ed uscì.
Le ragazze al vederlo con la pistola, corsero all’auto. Anche il cucciolo corse, senza smetter d’abbaiare.
Corsi dietro al Matto. Le ragazze stavano salendo sul maggiolino. Lui si girò e mi puntò la pistola.
–Non t’avvicinare o t’ammazzo– mi gridò.
S’avvicinò all’auto e prese di mira quella che guidava. Toccai la pistola, era al suo posto.
–Ma chi cazzo sei?– sentii che gridava la ragazza –. Ma chi cazzo credi di essere?
Il cucciolo abbaiava come un ossesso. Il Matto lo ammazza, pensai.
La ragazza gli doveva aver detto qualcosa, perché abbassò un poco la pistola. Mi avvicinai lentamente.
–Non me ne frega niente – Sono già morto. Sono morto da quattro giorni. Non me ne frega niente. Tu non sei nessuno per dirmi ciò che è buono e ciò che è cattivo.
Il motore della macchina s’accese. Il Matto alzò nuovamente la pistola. Colsi l’occasione per circondarlo e avvicinarmi da dietro. Ce l’avevo a cinque metri. Che le ammazzi, pensai, poi mi pentii.
Il cucciolo smise d’abbaiare.
–Vedi che non è difficile? – disse il Matto. Stava urlando, ma sembrava che sussurrasse–. Hai visto? Dì alla tua amica di uscire, poi esci tu.
Era a tre metri. Sentii una voce stridula, apparteneva alla ragazza che era alla guida. Non capii quello che disse.
–Guarda – disse il Matto e mise la mano davanti al finestrino. Ancora una volta aveva abbassato la pistola –. Tu non hai mai visto niente di simile. Sei troppo carina. Tu profumi, ma io ho un profumo migliore – scoppiò a ridere –. Io ho un profumo migliore. Io profumo che è un meraviglia.
Sentii un colpo. Aveva rotto un finestrino con la pistola. Le ragazze gridarono ed il cucciolo riprese ad abbaiare.
–Matto– gli dissi. Chinò il capo senza girarsi.
–Non me ne frega niente – disse.
–Infilò la pistola nella cintura. Mi misi dietro di lui. Le ragazze erano sbiancate.
Quella seduta al posto del passeggero assomigliava a qualcuna che non mi tornò in mente.
–Fate tacere il cane – le urali.
La ragazza alla guida se lo mise sulle gambe e cominciò ad a accarezzarlo con le mani contratte. Il cucciolo tacque.
–Vi faccio un regalo di Natale. disse il Matto, e si tolse il fazzoletto dalla mano –. Guardate, è la mia mano.
Erano troppo terrorizzate per provare schifo.
–Matto.
–Ti ho sentito – mi disse–. Non vedi che sto discorrendo con le signorine?
–Andatevene – gli dissi.
–Col cazzo – disse il Matto–. Che guardino, che si fottano – guardo quella al posto di guida–. Cosa vuoi? – le domandò– Che cazzo vuoi?
Fu a un pelo dal toccarla con la mano marcia.
–Guarisca – gridò isterica–. Si curi, la prego.
Il Matto mise mano alla pistola. Estrassi la mia.
–Mollala o ti riempio di piombo–.gli dissi.
Si girò a guardarmi. Stava piangendo. Aveva la stessa faccia di mio figlio quando gli rubarono il gatto. Mio figlio, lo avevo abbracciato. Col Matto non potevo, anche se avrei voluto.
–Perché ?–mi chiese.
Continuai a tenerlo sotto tiro.
–Spostati Matto. Faccio sul serio.
–Forse sarebbe meglio così – disse e si allontanò tra gli alberi. Trascinava i piedi e sembrava che la testa gli pesasse.
Il cucciolo s’era addormentato sulle gambe di quella alla guida.
–Andatevene – dissi–. E non vi passi per la testa di raccontare qualcosa perché vi vengo a cercare.
Il pavimento era pieno di pezzi di vetro. L’auto lasciò le impronte delle ruote nel prato.Il motore rombava troppo per essere un maggiolino.
–Hò gia provato a spararmi, ora, due volte – disse il Matto. Era in piedi al centro del cimitero delle automobili–. Puzza.
–C’e l’operativo. Andiamo o mi licenziano.
–Pensi che arriverò a Natale? – mi chiese.
–No.
Andò verso la sua macchina.
–Ormai..– disse.
Non sentivo più la puzza. Avevo smesso di sentirla da un pezzo. Gli aprii la porta.
–Ricordi se ho spento la tele? – mi chiese entrando.
–L’ho spenta io.
–Meno male. Consuma molta corrente.
Accesi la macchina. Il Matto non sapeva dove mettere la mano, aveva perso il fazzoletto.
–Che freddo di merda –disse.

Cementerio de carros

Publicado en varias antologías de cuentos.




El Loco sabía que se iba a morir. El médico se lo dijo:
–O te corto la mano o te mueres.
Él se paró y se salió del consultorio. Ni siquiera torció la boca, como a veces hacía. Sólo se levantó y se fue. Ya había dejado pasar mucho tiempo y el único modo de curarlo era cortar. No le gustó la idea.
–Loco, que te la quiten –le dije en la puerta–. Es la izquierda, no hay bronca.
–Es mi mano –dijo.
Hacía cuatro días que el Loco no iba al trabajo y el comandante me llamó.
–Tráeme a ese cabrón o los corro a los dos. Hay operativo y los quiero aquí a las siete.
A veces el Loco se desaparecía varios días y luego llegaba como si nada. Lo más probable era que se quedara en su casa lavando ropa o se fuera de putas a Acapulco, pero le gustaba hacerse el misterioso. No era raro que desapareciera cuando faltaban tres días para navidad.
Estaba en su departamento. Adentro sonaba la tele a todo volumen. Voces de caricaturas. Estaba pálido y parecía que no se había bañado en un año, él siempre tan limpio. Sudaba por todas partes.
–Huele a rata muerta –le dije.
–¿De veras?
Cuando huele así es porque hay algo descompuesto. Casi siempre es gente. Asesinatos pasionales, viejitas que se caen en la bañera, suicidas, de todo. Me asomé al baño.
–Ni busques –dijo.
Me enseñó la mano izquierda, envuelta en un pañuelo con manchas negras. El olor venía de allí. Se veía hinchada, con los dedos gruesos como chorizos y del mismo color que los chorizos.
–Me chingaron –dijo.
Se sentó frente al televisor y le dio un trago a una botella de brandy.
–¿Quieres un trago? –me dijo.
–No.
–¿Has visto Los Picapiedra? –me preguntó.
–Te voy a llevar con el médico.
–¿Has visto a los chingados Picapiedra?
–Sí.
–Te pareces al pinche Pablo –dijo, y se empezó a carcajear.
Encendí un cigarro.
–Deja de fumar. Esas cosas matan –me dijo.
–Hay operativo. Te voy a llevar al médico para que te vea y te dé una justificación.
Pedro Picapiedra estaba vestido de Santaclós y salía de una chimenea.
–¿Has visto Los Picapiedra? –me volvió a preguntar.
Yo no podía dejar de verle la mano envuelta. El estómago se me revolvió.
–¿Qué te pasó?
–Me chingaron –dijo.
–¿Quién?
–¿Qué importa? –dio un resoplido–. Me chingaron. Así pasa.
–¿Un balazo?
–No –dijo.
No pude sacarlo de allí. Era raro que no quisiera decirme. Le gustaba hablar de todo lo que le pasaba. Era bueno para contar historias.
Se miró la mano como con lástima. Un hilo de sangre negra se le resbaló por debajo del pañuelo.
–Se te está pudriendo –le dije–. Te llevo al médico.
–Ya ni llorar es bueno –se empezó a desamarrar el pañuelo–. Ya ni me duele.
Me la enseñó. Tuve que ir a vomitar. No porque no hubiera visto cosas peores, sino porque era la mano del Loco. Él se atacó de la risa y cuando volví estaba echándose el último trago de la botella.
–A ver si llego a navidad –me dijo.
–¿Y el que te lo hizo?
–Que se vaya a la mierda.
–Te llevo al médico.
–Se van a burlar –dijo, pero me acompañó.
Lo llevé en su coche; no quería que el mío se apestara. Este olor no se me va a olvidar, pensé.
–La vida es como las putas caras –dijo el Loco en un semáforo.
–¿Cómo? –le pregunté por seguirle la corriente.
–No sé, pero así es.
No volvió a hablar.
–Gangrena –le dijo el legista–. Hay que amputar. O te corto la mano o te mueres.
–¿Hasta dónde? –preguntó el Loco.
–Hasta aquí –y señaló abajo del codo.
Entonces el Loco se paró y se fue corriendo. Cuando llegué al estacionamiento ya no estaba su coche.
–¿Por qué huele a muerto? –me preguntó el Turco, uno de Homicidios.
–Yo no huelo nada –le dije.
Agarré uno de los carros confiscados y me fui a Cuemanco. Allí había un lugar donde al Loco le gustaba estar, con árboles y unos prados llenos de flores. El Loco era raro. A veces pasábamos por allí y me decía: vamos un rato.
Habían encontrado un cementerio de carros hacía años. Todos robados y desmantelados, puestos en filas bien parejitas. Eran como setenta. Al Loco le gustaba caminar en medio de los carros y sentarse en alguno a mirar los prados.
–Aquí quiero que me entierren –decía, y me contaba cosas de su papá.
Allí lo encontré, metido en un LTD sin asientos. Tenía la pistola en la derecha y miraba por el parabrisas con los ojos bien abiertos.
Me pareció que olía peor. Encendí otro cigarro y me quedé callado.
–Ya no fumes –me dijo.
Tiré el cigarro.
–Estás mal –le dije.
–Hace mucho frío. A nadie le da gangrena cuando hace frío. Además en clima seco no da gangrena.
–¿Y los gusanos?
–Que se jodan.
Fui a orinar a un árbol.
–Mi papá tenía una cicatriz en las costillas, así como de este tamaño. Estaba fea, como si le hubieran quemado.
–¿Qué le pasó?
–No sé –estaba sudando y tenía la voz pastosa–. Cuando íbamos a la playa me pasaba viéndole la cicatriz. No entendía cómo mi mamá lo podía abrazar con esa cicatriz. Me daba vergüenza que la gente lo viera en traje de baño.
Traté de tocarle la frente, pero se hizo para atrás y me apuntó con la pistola.
–Estás mal –le dije.
–¿Sabes por qué me dicen el Loco? –me preguntó.
–Porque estás loco –le contesté.
Soltó una carcajada y bajó la pistola.
–Una vez desarmé a cuatro asaltabancos con las purititas manos. Traían pistolones de este tamaño. Con las purititas manos y los dejé locos de tanto madrazo. Estaba en la Bancaria. Me dieron cuatro mil pesos de recompensa. Con eso compré la tele y unas camisas.
Apoyó la cabeza en el volante y se puso a llorar.
–¿Te duele?
–No.
–Son las cinco –le dije–. Tengo que estar a las siete para el operativo y tú te vas con el médico.
Entonces oímos el motor. Parecía de un carro deportivo con el escape abierto. El Loco levantó la cabeza.
–Van y chingan a su madre –dijo.
Se salió del carro con la pistola bien agarrada, alerta, como cuando teníamos que hacer algún trabajo delicado. Se fue corriendo hasta donde estaban los árboles.
Lo seguí.
–Es un vochito –me dijo desde detrás de un pino–. Suena como Ferrari.
–Vámonos –le dije.
–Son dos viejas –dijo.
Del coche bajaron dos muchachas y un cachorro blanco.
–Samoyedo –dijo–. Siempre he querido tener uno de ésos.
Las muchachas caminaron por el prado, con el perro corriendo y ladrando alrededor. Ellas no le hacían caso. Hablaban moviendo las manos y se reían. Usaban pantalones de mezclilla y unos suéteres de colores. Vestían casi igual.
El Loco las miraba con la boca y los ojos bien abiertos, como contento.
–Mi hermana me va a extrañar –dijo–. Ojalá.
–Vamos –le dije–. Que te corten esa chingadera.
–Es mi mano –dijo.
–Estás agusanado –le grité–. Te vas a morir.
Me miró a los ojos.
–No me grites –y volvió a ver a donde estaban las muchachas–. Te oyeron.
El cachorro se había puesto a ladrar hacia donde estábamos. Las muchachas se levantaron despacio, alarmadas.
–Ya la fregaste –dijo, y salió.
Las muchachas lo vieron con la pistola y corrieron al carro. El cachorro también corrió, sin dejar de ladrar.
Salí detrás del Loco. Las muchachas estaban subiendo al vocho. Él se volteó y me apuntó.
–No te acerques o te mato –me gritó.
Fue al coche y le apuntó a la que manejaba. Toqué mi pistola; estaba en su lugar.
–¿Quién chingados eres? –oí que le gritaba a la muchacha–. ¿Quién chingados crees que eres?
El cachorro ladraba como poseído. El Loco los va a matar, pensé.
La muchacha debió decirle algo porque bajó un poco la pistola. Me acerqué despacio.
–Me vale madre –gritó el Loco–. Yo estoy muerto. Me morí hace cuatro días. Me vale madre. Tú no eres quién para decirme lo que es bueno y lo que es malo.
El motor del coche se encendió. El Loco levantó otra vez la pistola. Aproveché para rodearlo y acercármele por detrás. Lo tenía a cinco metros. Que las mate, pensé, pero me arrepentí.
El cachorro dejó de ladrar.
–¿Ves que no es difícil? –dijo el Loco; estaba hablando a gritos, pero se oía como si susurrara–. ¿Viste? Dile a tu amiga que salga y después sales tú.
Lo tenía a tres metros. Oí una voz aguda; era de la muchacha que manejaba. No entendí lo que dijo.
–Mira –dijo el Loco y movió la mano frente a la ventanilla; otra vez había bajado la pistola–. Tú nunca has visto algo así. Eres demasiado bonita. Hueles bien, pero yo huelo mejor –se carcajeó–. Yo huelo mejor. Yo huelo pura madre.
Oí un golpe: había roto una ventanilla con la pistola. Las muchachas gritaron y el cachorro volvió a ladrar.
–Loco –le dije. Él bajó la cabeza sin voltearse.
–Me vale madre –dijo.
Se puso la pistola en el cinturón. Me paré detrás de él. Las muchachas estaban pálidas. La del asiento del pasajero se parecía a alguien que no recordé.
–Callen al perro –les grité.
La muchacha que manejaba lo agarró y se lo puso sobre las piernas. Empezó a acariciarlo, con las manos crispadas. El cachorro se calló.
–Les voy a dar un regalo de navidad –dijo el Loco, y se quitó el pañuelo de la mano–. Miren. Es mi mano.
Ellas estaban demasiado asustadas para asquearse.
–Loco.
–Ya te oí –me dijo–. ¿No ves que estoy platicando con las señoritas?
–Váyanse –les dije.
–Ni madre –dijo el Loco–. Que vean. Que se chinguen –miró a la que manejaba–. ¿Qué quieres? –le preguntó–. ¿Qué chingados quieres?
Estuvo a punto de tocarla con la mano podrida.
–Que esté bien –gritó ella histérica–. Que se cure, por favor.
El Loco puso la mano en la pistola. Saqué la mía.
–Suelta eso o te plomeo –le dije.
Volteó a verme. Estaba llorando. Tenía la misma cara de mi hijo cuando se robaron el gato. A mi hijo lo abracé. Al Loco no podía, aunque quisiera.
–¿Por qué? –me preguntó.
Seguí apuntándole.
–Apártate, Loco. Va en serio.
–Tal vez hasta fuera mejor –dijo, y se fue caminando hacia los árboles. Arrastraba los pies y parecía que la cabeza le pesaba.
El cachorro estaba dormido en las piernas de la que manejaba.
–Váyanse –les dije–. Y no se les ocurra decir nada porque las busco.
El piso estaba lleno de pedazos de vidrio. El carro dejó las ruedas marcadas en el pasto. El motor sonaba demasiado fuerte para ser un vocho.
–Ya traté de pegarme un tiro, ahorita, dos veces –dijo el Loco; estaba parado en medio del cementerio de coches–. Se siente feo.
–Hay operativo. Vamos o me corren.
–¿Crees que llegue a navidad? –me preguntó.
–No.
Fue hacia su coche.
–Ya qué –dijo.
Ya no sentía el mal olor. Hacía rato que había dejado de sentirlo. Le abrí la puerta.
–¿Te acuerdas si apagué la tele? –me preguntó mientras se subía.
–Yo la apagué.
–Menos mal. Gasta mucha corriente.
Encendí el coche. El Loco no sabía dónde poner la mano; había perdido el pañuelo.
–Pinche frío –dijo.

domingo, agosto 07, 2005

Algo sobre la muerte de Rafael Menjívar

Publicado en Forja (San José, Costa Rica) en septiembre de 2000 y por Alkimia (San Salvador) en diciembre de 2000.




La muerte tiene una ventaja que es al mismo tiempo lo contrario: fija a las personas en el tiempo, en los diferentes tiempos en que esa persona estuvo en nosotros, con nosotros, en nuestra memoria, en nuestros deseos de que las cosas fueran de cierto modo, o que no fueran en absoluto.
La ventaja de esa fijación es que por fin puede pensarse en la persona que ha muerto como un todo, como una estructura terminada, de forma definitiva, si es que “estructura” sirve como algo más que como sinónimo (académico, pedante) de “vida”. (También implica dolor: es el precio: ¿quién quiere pagarlo?)
Todo se explica de pronto –hay que tener voluntad para ello–, y lo que vimos treinta años antes tiene sentido en las últimas palabras del que ha muerto o en los silencios terribles de su agonía, en el recuerdo de una carcajada en algún momento indefinido del pasado. (Hay imágenes que no pueden ubicarse: son destellos que llegan y se van antes de que uno alcance a aprehenderlas; y es que talvez uno no comprendió su importancia en su momento, de allí la fragilidad del recuerdo.)
Todo, también, tiene sentido cuando se hace la lista de quienes llamaron para enterarse del moribundo, de quienes no llamaron jamás, de quienes fueron sus amigos sólo a la última hora, de quienes lloraron sin saber por qué, pero con el corazón.
¿Quién cargó su ataúd, quién quiso cargarlo, quién fue espectador, quién fue víctima? La estructura se cierra con ese último hecho. Y ése es el último hecho porque a la hora de las paletadas de tierra llora casi cualquiera, o casi cualquiera debe contener el llanto, porque es sobre la imagen que tiene uno de sí mismo que están cayendo esas paletadas: un día ese ataúd será el mío –lo es desde ya, qué le vamos a hacer–, un día habrá ciertas personas presentes o ausentes y vestidas de negro que también lloren en nuestro nombre, por nuestro nombre: están en nuestra muerte desde ya. (¿Quiénes son? Y ¿por qué precisamente ellos?)
Todo es claro entonces. Uno puede decir: “Esta persona fue esto”, o “Esta persona fue esto otro”, aunque uno lleve el mismo nombre que el muerto. Y el hecho de llevarlo hace que, de algún modo, uno tenga una visión de sí mismo –parcial, de acuerdo–, una pista acerca de quién es, de qué está siendo, de quién fue y –¡vamos!– de quién será cuando llegue el momento en que suenen las paletadas sobre el ataúd propio y otro a su vez, con el mismo nombre a cuestas, se dé cuenta de que un ciclo se ha cerrado dentro de su vida, y que “la vida” significa que algo suyo, alguien que es él mismo, ha muerto y sin embargo apenas está muriendo, y así sucesivamente.

* * *

La desventaja de que una persona se quede fijada en el tiempo es la propensión a la solemnidad y al sensiblerismo.
La solemnidad evita que uno vea al muerto de frente. En realidad lo que el solemne ve es su propia imagen en un espejo distorsionado, del que la miopía le impide ver el detalle. No habla del que murió, sino de sí mismo, de lo que quiere de sí mismo, para sí mismo, y sueña con estatuas y con los discursos –solemnes, claro– que se dirán cuando su cadáver descienda a la oscuridad. Un solemne no aceptará que se le incinere; quizá en su caso sí funcione eso de la incorruptibilidad que la naturaleza reserva a algunos elegidos: se han visto casos y se verán más, no quepa duda.
La sensiblería estupidiza, si no es ella misma un síntoma de estupidez. (No tiene que ver con el IQ, sino con la inteligencia del alma.) El sensiblero llora, recuerda cualidades que el muerto no tuvo, y quiere verlo –¡ah, los espejos!– como se vería en su propio funeral si tuviera la oportunidad. (Al menos el sensiblero sabe que no la tendrá; sólo se rinde duelo antes de que sea demasiado tarde. Cuando esté a punto de morir tendrá miedo como cualquiera, humano o no, solemnes incluidos.)
Rafael Menjívar (escribo mi nombre y siento que escribo también el de otros; eso hago) se fijó en el tiempo el 7 de agosto de 2000, día de su muerte, para quienes lo quisieron, y para los solemnes (que ya reconstruirán su historia a conveniencia) y sensibleros (que ya lloraron un fragmento de su propia muerte y obtuvieron un poco de paz de espíritu). Para mí, Rafael Menjívar (escribo su nombre y el de otros y siento que estoy escribiendo el mío), el aire sigue siendo más ralo que antes y he muerto casi cada vez que he respirado desde el 7 de agosto, porque lo que enterramos (¿qué nombres esconde ese plural?) fue un pedazo de lo que soy, de lo que seguiré siendo y lo que ya nunca seré.
Ya pasará la sensación de ahogo. Siempre pasa. Eso es lo que dicen, y lo creo; hace menos de un mes y medio que un pedazo de mi nombre está muerto y hace falta acostumbrarse a que uno no obstante continúa desconcertantemente vivo.

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El dolor es egoísta. Siempre. Sin excepciones.
El doliente no puede pensar más que en sí mismo. Por eso es tonto esperar que los suicidas tengan compasión de sus familias (“Su hija lo encontró, pobre niña, por qué no pensó en ella”), o que los depresivos terminales hagan algo más que ver la pared, o que los bebés con cólico dejen de llorar, llorar, llorar.
Puede no ser egoísta cierta aceptación de sufrir dolor a causa, digamos, de una causa noble: el héroe que salva a una o tres o cuatro personas del incendio, la madre que protege al hijo con su cuerpo en la erupción del Etna. O trabajar excesivamente para que las cosas mejoren –la situación económica propia, la miseria de tanta gente–, sin importar las consecuencias ni el cansancio que, de verdad, en algún momento dejará de sentirse.
Pero llegado el dolor sólo hay egoísmo y retraimiento. Por eso detesto a los mártires profesionales: necesitan de los peores dolores o del deseo de las peores torturas para que su vida tenga sentido, y cada vez que dicen “Estoy dispuesto a...” sienten el dolor anticipadamente y se retuercen de placer. El pueblo, o la religión, o la patria –siempre una generalidad: ¿cómo puede individualizar un egoísta?– son el motivo declarado de su dolor futuro, que sin embargo disfrutan de antemano. Para el mártir el dolor no es un riesgo: es un objetivo.
Los que verdaderamente “están dispuestos a...” no se andan con justificaciones: simplemente hacen lo que tienen que hacer, y saben que todo tiene un precio; si pueden, se abstendrán de pagarlo. No son gente enferma: son gente que vive a secas, al igual que la gente que “no está dispuesta a...”, esa mayoría respetable.
Doy demasiadas vueltas para decir que en las últimas semanas he fumado de más, y que eso hace daño. No he podido dormir antes de las cinco de la mañana. Me la paso frente a la computadora –ah, el maravilloso enlace a 64k– y busco discos gratis en el web, escribo por trozos las correcciones de un libro que debí terminar hace un año –añado, quito, dudo, borro, reescribo, invento–, abro el programa de música y transporto a sonido de guitarra las variaciones Goldberg que conseguí en formato MIDI (hay que ajustar velocidades, tesituras, etcétera), tomo el cuaderno y hago anotaciones a mano, abro el libro sobre etnicidad y literatura en Guatemala que acaba de enviarme Mario Roberto Morales, leo y subrayo, ceno entretanto, almuerzo, busco en el web cosas que antes no me importaban y que cuando termino de bajar olvidé para qué servían. Llega trabajo por correo electrónico. Bajo los archivos, los reviso, traduzco, envío. Repito el ciclo, me acuesto en la hamaca y el único cambio es que leo un capítulo del Manual de caligrafía y pintura de Saramago; lo demás sigue, compulsivamente.
Y de repente es de nuevo hora de despertar y otra vez la de acostarse, hora de comer, las horas del día tan iguales, el calor siempre el mismo, la tormenta eléctrica de hoy idéntica a la de cuándo. Es tanto lo que hago en estos días que no guardo registro sino en segundo plano, y es difícil que todo tenga sentido por sí mismo. Esa compulsión, lo sé, es un modo de asumir el dolor, o de impedirlo, y ya me harta. Estoy siendo egoísta: estoy encerrado en la muerte de alguien que llevaba mi nombre, aunque siempre había dicho que el proceso natural, que la última etapa de la vida y todas esas coas. Y no, no pienso en un dios; sería faltarme al respeto y faltarle al respeto a los otros Rafael Menjívar con los que comparto sangre.
(Son las 5:13 de la tarde. ¿Cómo llegamos a las 5:13? Hace apenas un rato eran las once de la mañana del día de ayer. Sí, me digo como en los días anteriores, hoy me dormiré temprano. Estoy seguro. Y me da miedo, y a la vez me es indiferente, que el reloj marque de repente las 5:30 de la madrugada y que los pájaros canten después de un largo sueño, que envidio aunque no deseo. Y allí está el peligro: en el miedo, en la indiferencia, en la envidia de algo que no se desea. Quisiera decir que el verdadero peligro está en el reloj, pero no es cierto: él sólo hace su trabajo. No quiero pagar el precio del dolor. Debo fumar menos. Ah, cómo me extraño, cómo quisiera estar de nuevo conmigo.)

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¿Qué se fijó de Rafael Menjívar en el tiempo el 7 de agosto de 2000, diez días antes del cumpleaños de Rafael Menjívar su hijo, un mes y dos días antes del de Rafael Menjívar, su nieto?
Con él las cosas nunca fueron fáciles, y allí estuvo siempre su encanto: se puede saber qué fue, pero no a partir de ciertos actos, sino de todos; si esa afirmación debe expresar algo es admiración por una vida interesante. Jamás entró a trabajar a las ocho de la mañana –no por mucho tiempo, quiero decir, no definitivamente–, ni regresó a las seis de la tarde ni encendió la televisión ni abrió una cerveza ni leyó el diario mecánicamente más que como un cambio de rutina, y su rutina –nuestra rutina– era la falta de certezas: policías a veces alrededor de la casa, libros nuevos, gente interesante, a veces esconderse durante unos días por cosas que otros hacían, siempre el riesgo de la cárcel o el exilio o la muerte. Algo aprendimos: la vida puede terminarse hoy, en cualquier momento; hay que hacer las cosas que uno debe hacer antes de que “eso” llegue, qué diablos. El problema –lo veo cuando he pasado de los cuarenta años, ahora que mi padre murió entre otras cosas de cansancio– es que ese exceso de energía que se gasta cobra caro. Pero es difícil vivir de otro modo cuando no se sabe cómo.
Rafael Menjívar, en fin, jamás se acostó a las nueve de la noche y se despertó con las gallinas. (El sonido más grato de mi niñez era la máquina Olimpia sonando a 120 palabras por minuto en el entresueño. Mi hijo habla de cómo extrañó ese mismo sonido cuando cambié la Olivetti por el teclado.) Tampoco tuvo un seguro de vida, una pensión, y los ahorros le sirvieron para morir, no para vivir el resto de su vida: la diferencia es inmensa.
Mi perspectiva es limitada: Rafael Menjívar era mi padre, y esas relaciones nunca son transparentes, aunque lo intentemos. Menos fáciles son aún porque Rafael Menjívar soy yo, y es mi hijo que lleva el mismo nombre, y es mi hija que se llama Eunice, y mis hermanos, y sus amigos y sus enemigos, que los tiene aún en la muerte porque los mereció: la gente recta merece tener enemigos. (Es su premio. Es su victoria. Y son enemigos de todos nosotros, de Rafael Menjívar, porque es en nosotros en quien vive el que murió hace apenas unas semanas.) La amistad, por otra parte, es una decisión íntima; nadie hereda a los amigos como hereda algunas fotos o unos cuantos libros subrayados aquí y allá con marcador amarillo.
Y desde mi perspectiva hay cosas que a nadie le interesan –son tan banales si no se las vivió...–, pensamientos tan íntimos que no se ponen en una nota que aparecerá en una revista, hechos tan complejos que necesitarían contarse en un espacio más largo, con otra intención talvez.
Es poco entonces lo que puedo decir, más allá de nació el 3 de enero de 1935, en Santa Ana, decano de economía a los 28 años, rector de la Universidad Nacional a los 35, exiliado hasta el día de su muerte, ocurrida a los 65, homenajeado post-mortem en varias ocasiones, cerca de 30 libros publicados (muy pocos en El Salvador, qué triste, él que vivió y murió pensando en su país).
Pero puedo decir que sus delirios con la morfina que le aliviaba el dolor del cáncer me mostraron quién era de verdad: era él mismo, la persona a la que conocí desde siempre y hasta ese día.
Su obsesión en los días de agonía era el trabajo. Con el tío Juan, conmigo, hacía largas reuniones en las que los temas recurrentes eran la creación de un organismo que buscara la integración política en Centroamérica y la consecución de fondos para proyectos de investigación acerca de El Salvador. (Un par de veces, en los peores momentos, vio policías nacionales que trataban de llevárselo preso o que intentaban secuestrar a Diego, el hijo de mi hermana. Pasó pronto.)
Durante un mes lo acompañé en las noches y platicamos otra vez de todo lo que platicamos desde que tengo memoria, y que la lejanía física había hecho menos frecuente. Las primeras veces fue difícil comunicarnos; la morfina lo hacía cambiar el objeto de atención a cada momento. Si hablábamos de literatura y ladraba un perro en la calle, comenzaba a hablar de perros; si un carro chirriaba las llantas, cambiaba a los accidentes automovilísticos o al cuidado de los frenos. En unos días descubrí que en realidad seguía hablando del mismo tema, que su discurso era por completo coherente; sólo cambiaba las relaciones que hay entre los elementos literarios a las relaciones entre los perros, los frenos y sus respectivos contextos.
Las pláticas comenzaban a las once de la noche, y él las esperaba como veinte años atrás, en México, esperaba a que yo llegara del trabajo a esa misma hora, para conversar hasta muy entrada la madrugada.
A veces me reconocía como su hijo; a veces yo era él y me hablaba como sólo podía hablarse a sí mismo, en voz muy baja. A veces yo era su hijo Rafael Menjívar, pero me hablaba como si yo fuera otro hijo, otro Rafael Menjívar al que acabara de conocer. A veces me decía de lo que sentía por mí como nunca lo hizo, creyendo que era otra persona a la que se lo contaba, o así supongo. Y gracias a eso sé que el dolor pasará, aunque ahora parezca excesivo: porque me dijo tantas cosas acerca de sus sentimientos, y yo de los míos, que dejamos nuestras cuentas claras. ¿Qué más se le puede pedir a un padre, sino que le diga a uno que lo quiere antes de morir, y poder decirle lo mismo?
A veces, cuando se ponía mal, le colocaba una mano en la frente y le hablaba en voz baja. Casi siempre se tranquilizaba. Casi siempre. Casi. A veces lo llevaba al jardín en la silla de ruedas. Me pedía un cigarro, que tenía prohibido desde hacía una década pero que no abandonó sino hasta que el cáncer prometía ser incurable. Y ésos son los momentos que aún me duelen, los que no puedo quitarme de encima: mientras fumaba, miraba el jardín con una tristeza profunda, con una expresión en los ojos que no se parece a nada que haya visto, y que espero no sea la mía cuando llegue mi momento.
De pronto se volvía hacia mí y podía darme cuenta de que había emergido de entre los vapores de la morfina, que estaba absolutamente consciente y que no podía hablar, que no quería hablar, que no quería que yo le hablara. Me acercaba y me sentaba a su lado y trataba de ver lo mismo que él, sin lograrlo.
Era tristeza por haber vivido tan poco tiempo y por haber vivido demasiadas cosas. Le tomaba una mano y él lo aceptaba. Le daba otro cigarro y, después de fumarlo, me pedía que lo llevara a la cama; estaba cansado, quería dormir. Y dormía de un tirón, y a la mañana siguiente la respiración le fallaba por algo más grave que el par de cigarros que le había dado y que ese cáncer que no era pulmonar, sino en los huesos: ¿dónde más podía tenerlo?
Desde hacía mucho tiempo mi padre estaba cansado. Desde 1983 no volvió a ser feliz. Y no fue gratuito que quien le cerrara los ojos, unas semanas después, fuera Tula Alvarenga, dirigente obrera, presa tantas veces en compañía de su esposo, Salvador Cayetano Carpio. La tía Tula permaneció al pie de su cama durante buena parte de siete días y de siete noches. Es amiga de la familia –es parte importante de la familia– desde mil novecientos cuarenta y tantos: ¿quién podía negarle el derecho de cerrarle los ojos a ese hombre ya sin carne que vio desde que era un niño con todo el futuro para vivirlo?
Refraseo: ¿quién mejor para cerrárselos?
Son otra vez las 5:05 de la mañana. Quiero dormir.
Mi padre ha venido a mis sueños sólo un par de veces. La primera él estaba a punto de caer a un precipicio. Estiré la mano y no la tomó: se dejó caer luego de decirme que así estaba bien. En el sueño era joven, mucho más joven de lo viejo que me estoy poniendo. La segunda vez que me visitó, hace tres o cuatro días, salió de entre una multitud, alzó la mano y me saludó de lejos, sonriendo.
Porque eso sí: murió sonriendo.